Il 7 aprile 2015 viene pubblicato Sfardo, il primo album di Alessio Bondì, un cantautore sicuramente non noto a tutti.

Palermitano d’origine, vive un’atmosfera musicale che spazia dal blues al folk in cui rivive ricordi d’infanzia in modo poetico e surreale. Ciò che caratterizza in modo notevole la sua produzione è l’esclusivo uso del dialetto palermitano, che non fa altro che conferirle uno stretto senso di appartenenza. Alessio spazia ovunque: parla della quiete dello spirito attraverso un messaggio popolare nella sua Rimmillu ru’ voti (Dimmelo due volte), in Vuccirìa descrive uno dei quartieri più famosi di Palermo, in cui l’atmosfera da “mercato arabo” rievoca l’aggregazione tra cittadini di appartenenza e classe sociale differente. L’inusualità di temi e sonorità lo rendono un album tutto da scoprire. Proprio per questo abbiamo colto l’opportunità di rivolgere alcune domande all’autore, per toglierci qualche curiosità, per calarci nell’atmosfera e perché no, anche per conoscerlo meglio. Ciao Alessio, è un piacere poter dialogare con te! Presentati ai nostri lettori. Ciao a tutti! Sono Alessio Bondì, canto, suono la chitarra e scrivo canzoni. Descrivi con tre aggettivi il tuo stile. Umile, rivoluzionario, poetico. Fai una piccola considerazione sulla trasformazione che la musica sta subendo in questi ultimi anni. È un tema molto ampio e delicato che differisce da paese a paese. Sono convinto che quest’epoca sia una delle migliori in cui fare musica: poterla ascoltare dovunque e gratuitamente è un privilegio che in passato non esisteva, per me che sono autodidatta è come aver vinto una borsa di studio. Il genere che si sta affermando maggiormente è il rap, tu come lo valuti e che influenza pensi che abbia sulle nuove generazioni?È una forma d’arte bellissima, che unisce improvvisazione, ritmo e poesia alla velocità di pensiero e alla rottura di ogni tipo di timidezza o filtro. È un genere che ammiro tanto, non a caso la mia canzone “Vuccirìa” ha un’intenzione simile. Credo possa essere un contenitore per chi vuole esprimere il proprio disagio; a mio parere a scuola si dovrebbe istituire l’ora di rap, soprattutto di questi tempi. Poi se la si facesse nei rispettivi dialetti. . . non sai che meraviglie uscirebbero fuori. In Italia mi piace molto quello che fa Willie Peyote, riesce ad essere intelligente e “groovoso” allo stesso tempo, negli USA adoro la pasta sonora e vocale di Anderson Paak. Dopo questa piccola parentesi, parliamo di te. Com’è iniziato il tuo percorso musicale?Nella mia stanzetta con mio fratello, un basso eko, una vecchia chitarra di mia madre, a farci compagnia Bob Dylan e The Libertines. Tu scrivi i tuoi brani in dialetto palermitano. Come mai questa scelta?Da un’esigenza profonda che neanche io sapevo di avere. È stato totalmente casuale iniziare a scrivere in palermitano e scoprire che era proprio quel linguaggio il mio canale di espressione privilegiato proprio nel momento in cui molti decidevano di cantare in inglese per “arrivare” di più e in cui nessuno (dico nessuno!) fino a quel momento aveva mai pensato di scrivere con quella lingua da molti considerata volgare per creare canzoni che parlassero al cuore della gente con lo spirito dei songwriter statunitensi. Ormai hai varcato i confini italiani catapultandoti nei territori internazionali. Trovi che la tua lingua vincoli gli ascoltatori?Come artista siciliano rappresento quel triangolino di terra sul quale sono nato. Questo è molto chiaro dato che canto in dialetto ma diventa ancora più chiaro quando varco i confini nazionali. E questo avviene già superando lo stretto di Messina. Per me cantare “sul continente” è già come cantare all’estero dal punto di vista linguistico. E all’estero si dà per scontato che non si capisca la lingua di un artista che viene da un altro paese per cui ci si gode la musica e l’emozione che ne scaturisce. Certo una parte di essa è anche affidata alle parole. Allora lo sforzo interpretativo dell’artista deve essere maggiore, per veicolare il sentimento che c’è dietro ogni parola. Ci sono tanti livelli in una performance, chi non capisce il testo se ne perde uno, per carità importante, ma può comunque godere di tutti gli altri. Parliamo del tuo disco, ”Sfardo”, raccontacelo brevemente. Sfardo è l’insieme di dieci spremute di cuore, testa, fegato e ossa. C’è un significato particolare dietro al titolo?“Sfardo” significa strappo e in siciliano può designare sia qualcosa di violento e doloroso, sia qualcosa di positivo e fortunato come nel detto “sfardare la vita (o i picciuli)”. Qual è il brano del tuo album che pensi ti possa rappresentare meglio?“Rimmillu ru’ voti”. Bene, abbiamo quasi finito. Ti lascio con un’ultima domanda: Cosa ti ha insegnato l’esperienza di debutto del tuo primo album?A non sperare mai nulla. Lavora, scrivi, suona, fai! Sperare significa aspettare. Aspettare cosa, chi? Chiedetelo e se ha senso: aspetta. Se non ha senso, fai. C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?Sì, parlate col preside e chiedete di istituire l’ora di rap 🙂