Gentilissima Redazione,
mi chiamo Graziella Lupo Pendinelli, ho frequentato il Liceo “De Giorgi” negli anni 1987 – 1992. Ho avuto notizia della morte di Maria Rosaria. Le affido uno scritto. Lo utilizzi, se e come ritiene. Grazie. E buon lavoro.

Graziella Lupo Pendinelli.

Gentilissima Graziella (permetta la confidenza un po’ sfacciata!) come si dice nella grandi Redazioni di tutto il mondo: Riceviamo e onorati pubblichiamo! Grazie a Lei!

LeCosimo


Ha un ben dire Roland Barthes con la sua nota sulla fotografia a riportarci a quella memoria presente della morte, “Dove lei non è” lo fa con parole migliori perché morsicate e inesatte nel dolore della separazione. Le fotografie ci passano davanti il tempo, altre volte le nostre facce masticate dalle stagioni, altre volte la brutalità di un presente facendosi esse stesse definitivo ieri.

Al liceo anche noi avevamo uno zaino pesante ma nessuno stava a farci moine perché studiare ancora aveva odore di diritto, certe volte di privilegio. Ed io figlia di contadini che non si sentono corpo se non portano pesi, nello zaino aggiungevo il walkman e la macchina fotografica.

Ero pendolare, 30-40 minuti in pullman al mattino e altrettanti al vespro. La musica mi accompagnava al ritorno perché al mattino qualche pagina da ripetere avanzata dalla sera sempre la si trovava. Invece alle 13 in pullman, magari quello col “rimorchio” che ribaltava gli stomaci vuoti, un po’ di musica era necessaria. Fu una bella trovata quella degli auricolari, mi permetteva di darne uno alla compagna accanto, Rosalba. Lei ascoltava la mia musica; sembrava allietata. La macchina fotografica invece era una scatoletta primitiva, una di quelle che poco dopo le hanno messe in omaggio nei fustini del Dash. Era una Kodak, ovviamente analogica, che suonava di scadente e di povero ma era il mio primo “occhio che pensa e il mio primo dito che scatta”. Me la portavo a scuola e scattavo – qualche volta – alle prof e quasi mai senza consenso. Spesso fotografavo in classe, in quei momenti di pigro discorrere di quel tempo che ha la spudoratezza di mostrarsi fatto di eternità.

Oggi che qualche libro in più ha migliorato i miei ricci, guardo quelle fotografie e ci trovo racconti. Come al solito, e ancor non m’abbandona, racconti di incontri e di relazioni. Istanti di contatti che tenevano giorni pigri e lenti e ne facevano in un solo fotogramma narrazione di relazione. Per 5 anni nella stessa scuola non è uno scherzo. Sono tanti giorni in fila e tanti sguardi mischiati. Di parole poi non ne parliamo. Mi piaceva farle, le parole, con quelle persone che divenivano anche lì piccola certezza di presenza. I prof si sa erano lì per fare le parole; non sempre riuscivano al meglio tra avverbi ripetuti per incapacità di dire ciò che non sapevano o per logorrea in odore di sacrestia che riempiva le aule a danno di altre libertà. Invece loro non erano “preposti” alle parole ma a una forma di cura, erano i bidelli e le bidelle.

Cesare si occupava del mondo fuori, così sembrava ai miei occhi di allora. Aveva sempre da fare a bordo della sua bicicletta. Aveva gli occhi belli e lo sapeva. Pina era ironica e giocosa, faceva smorfie col corpo e portava leggerezza anche con Otello che si mostrava un po’ scontroso – chissà forse per la troppa linetti che spalmava sui capelli nero corvino. E Maria Rosaria. Lei c’era. Era un respiro di sicurezza. Piccola, dagli occhi speciali, dall’ironia intelligente, con brevi cenni al vernacolo della sua Calimera era lì, presente. Era presente a chi la cercava, a chi le rivolgeva parola e rispondeva con precisione d’amore nel gesto e nell’attenzione.

Una fotografia mi vede abbracciata a lei, a Maria Rosaria, insieme con Pina e Cesare. Io sono ridicola nei miei pochi anni con addosso un maglione gigante che avevo preteso di comprare perché mi piaceva e poi ancora speravo di crescere!  Lei con un maglione bianco, piena di luce, era donna giovane – come si dice – nel meglio dei suoi anni. Era pienamente bella. Qualche giorno fa Maria Rosaria è morta. Avevo fatto appena in tempo a darle, per terza mano, i miei saluti e a farle vedere la nostra fotografia. Al mattino sull’eco della campanella d’inizio era lì a farci buongiorno con lo sguardo e col sorriso.

Le fotografie sono stronze, oggi si fa di tutto per nasconderlo. Sono digitali, senza corpo. Sono innumerevoli, senza tempo. Sono violate nella loro sostanza: invece di dirci quel che è stato, e anche come è stato, sono ridotte alla vuotezza di un istante da buttare su instagram in attesa di quei like senza narrazione. Invece le fotografie sono fiere. Tengono il tempo come bestie nascoste e fanno orgoglio o tormento di attraversamenti rimasti a ieri. Le fotografie sono pretesti. Come lo sono le nostre tronfie esistenze. Avrei voluto abbracciarti in carne ed ossa come in una nuova allegra fotografia; ancora una volta ho presunto di aver tempo.

Grazie Maria Rosaria, la mia bidella del liceo scientifico De Giorgi.