Da quando Fillippide, più di due millenni or sono, compì l’eroica traversata da Maratona ad Atene, lo sport internazionale ha fatto tanto in termini di integrazione, facendosi veicolo di valori di pace e fratellanza.

Basti pensare alle battaglie sospese in nome dello sport, o alla storica corrispondenza epistolare tra l’”ariano” Long, atleta del “fuhrer” e il vincente Jesse Owens: “vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia”, scriveva il tedesco poco prima di cadere in Sicilia. Una svolta epocale si ebbe, però, quando cinquattotto anni fa nacque a Roma la prima Paralimpiade, occasione per centinaia di paraplegici, molti dei quali veterani della seconda guerra mondiale, di sperimentare la bellezza e il messaggio universale dello sport nonostante le disabilità fisiche. Un movimento che è cresciuto tanto, fino ad arrivare ai giorni nostri, dando alla cronaca molti grandi nomi, esempi di forza e perseveranza per molti giovani. Alex Zanardi e Bebe Vio solo per citarne alcuni. Non sono solo loro, però, ad animare il movimento sportivo paralimpico italiano. Ci sono altre storie che fanno dello sport una ragione di vita, un antidoto al veleno subdolo e cieco della malattia, una linea di confine robusta e solida tra vita e morte. È la storia di Carlo Calcagni, colonnello dell’Esercito e ciclista. Non una disabilità fisica gli inibisce la normale pratica sportiva, ma una disabilità organica, una disfunzione sistemica che sballa tutti i parametri vitali, lascia sgomenti i medici e smentisce la letteratura scientifica. La SLA non si combatte solo con le 300 pillole quotidiane, le 4 ore di flebo e tutte le punture giornaliere, ma anche con lo sport, declinato come motivazione a resistere, spinta a combattere, passione di vita, che dona la vita. È proprio questo che l’opinione pubblica non recepisce. Lo sportivo paralimpico viene visto come un mutilato, un atleta cui manca qualcosa e che prova tramite lo sport a redimersi; un atleta inferiore che guarda ai colleghi normodotati come modelli inarrivabili di atletismo. A causa dei soliti stereotipi all’italiana, non passa un messaggio importante: l’atleta paralimpico matura una costanza, una forza fisica, una propensione a superare i propri limiti di gran lunga maggiore rispetto ai colleghi normodotati. La storia del Colonnello Calcagni ci regala un insegnamento importante: continuare a lottare, sempre, anche quando le maledette circostanze della vita remano tutte in senso contrario. Lottare e vivere grazie allo sport, usarlo come veicolo di benessere, un briciolo di sollievo che penetra i nervi e placa i dolori durante lo sforzo fisico. Una costanza micidiale per tenere in funzione le gambe, per non farle abbandonare al torpore dato dal Parkinson; continuare a pedalare freneticamente per smaltire i litri di liquido accumulati nell’addome. Pedalare per vivere. Questo è il messaggio che Carlo e lo sport paralimpico ci lasciano. Un messaggio di gran lunga più autentico e sincero degli esempi di sport che tengono banco nelle colonne dei quotidiani sportivi. Un messaggio genuino, perché il valore autentico dello sport sta in quegli uomini e donne in carrozzina, con la benda sugli occhi o con le protesi alle braccia. Sta nelle gambe venose o nei bicipiti muscolosi di chi siede su una sella con tre ruote o di chi pedala con le mani. Di chi sul podio, non grida di gioia, ma lancia un urlo alla vita. Non una coppa o un premio in denaro. Ma la conquista quotidiana e ostinata della vita.