Con circa 11mila dipendenti diretti ed oltre 3mila addetti nelle imprese dell’indotto, per un totale di 14mila dipendenti,  l’ex Gruppo Ilva, ora Arcelor-Mittal, attraverso il suo stabilimento di Taranto, si impone come acciaieria tra le più grandi del mondo e detentrice del primato assoluto in Europa.

Tuttavia, i grandi numeri relativi all’occupazione non sono gli unici motivi che hanno generato l’interesse delle componenti sociali e della magistratura sullo stabilimento; com’è noto, infatti, la recente cronaca ha concentrato l’attenzione sulle pericolose ricadute in termini di inquinamento. L’azione della magistratura ha determinato il passaggio della gestione aziendale alla procedura di amministrazione controllata e alla incriminazione dei membri della famiglia Riva quali responsabili di reati ambientali. Lo stabilimento tarantino adotta il ciclo integrale, un sistema che utilizza cokerie, attraverso le quali si ottiene un derivato del carbon fossile, il coke da cui a seguito della lavorazione nell’altoforno si produce l’acciaio. Ormai sono diversi anni che l’Ilva è al centro dell’attenzione mediatica e per districare la sua storia, lunga e complicata,  LeCosimò si è rivolto a Francesco Giaccari, professore Ordinario di Economia Aziendale di Unisalento, tarantino. Professore, può lei raccontarci da tarantino qual é, come è ed è stato in passato il rapporto tra l’Ilva e gli abitanti della Città dei Due Mari?Lo stabilimento ha una lunga storia, iniziata nei primi anni sessanta con la costruzione di forni e tubifici. L’allora Italsider, frutto di investimenti pubblici, nasce per fronteggiare il fabbisogno nazionale d’acciaio, alimentato dalle esigenze di ricostruzione del secondo dopoguerra e dal successivo boom economico. Tra i vari centri portuali  candidati ad ospitare nuove acciaierie, fu scelta Taranto. Esercitò un ruolo importante la configurazione del porto e anche la presenza di una tradizionale classe operaia. Gli investimenti nell’area industriale  produssero una forte crescita economica e lo sviluppo del territorio. La rottura dell’equilibrio venne però causata dal raddoppio della capacità produttiva e quindi dalla costruzione di nuovi impianti di grande dimensione, concentrati a Taranto per volontà di forze politiche, nonostante pareri tecnici contrari. In sostanza, le forze politiche intendevano trarre i vantaggi del consenso che l’incremento dell’occupazione avrebbe determinato. Poi arrivò  la crisi del settore e anni di investimenti insufficienti, in particolar modo sul fronte ambientale, e via via la presa di coscienza dei cittadini riguardo ai danni sulla salute e sull’ambiente delle emissioni inquinanti dello stabilimento. . La città è ora provata da un lungo periodo di crisi anche occupazionale ed è divisa e combattuta tra chi immagina il superamento della  industrializzazione fondata sull’acciaio, e chi guarda alle difficoltà di una riconversione che richiede tempo e soprattutto risorse non solo finanziarie e capacità progettuali. è schierato con le circa 20. 000 famiglie che vivono grazie all’Ilva. L’Ilva ha avuto un ruolo importante nel colmare il persistente gap economico tra il nord e il sud?Tutti gli investimenti fatti in quel periodo erano volti a ridurre il fortissimo gap esistente tra nord e sud, a cui contribuiva molto la scarsa industrializzazione del meridione. L’idea era quella di creare dei grandi poli industriali, come avvenuto nel caso di Brindisi con la chimica, sperando che favorissero la creazione di filiere industriali e di una imprenditoria adeguata sul territorio. Questo, però, non si è verificato per ragioni molteplici connesse alla insufficiente attrattività di territori, caratterizzati da bassi profili del capitale sociale, cioè efficienza della burocrazia, senso comunitario, istruzione adeguata, imprenditorialità moderna, rispetto della legalità. Inoltre, occorre anche ammettere che il fallimento dello sviluppo di una forte struttura industriale intorno ai poli industriali è stato favorito dalle scelte strategiche delle imprese del nord riluttanti a delocalizzare le produzioni. Perchè l’Ilva ha seriamente rischiato di chiudere?Come già detto in precedenza, vista la grande domanda di acciaio, le forza politiche decisero l’ampliamento dello stabilimento, portando alla costruzione di altri tre altiforni a grandissimo impatto ambientale, nonostante il parere sfavorevole dei tecnici. Tuttavia, l’inquinamento più evidente, presente soprattutto nel rione Tamburi, dove io ho vissuto, è costituito dai Parchi Minerali scoperti, situati a ridosso della città, dove  basta una folata di vento perché le polveri si diffondano nell’abitato ed entrino persino nelle case,  e ciò produce effetti deleteri sulla salute, un pericolo maggiore forse della diossina prodotta durante la lavorazione, ma anche la percezione immediata e diretta del degrado ambientale. Tornando alla storia, intorno a metà degli anni novanta, lo stato si ritrovò a dover privatizzare per ragioni attinenti il forte indebitamento ma soprattutto obblighi connessi alle regole europee che ostacolano la presenza di imprese a proprietà statale. , L’Ilva fu  ceduta alla famiglia Riva, già operanti nel settore dell’acciaio titolari di imprese di medie dimensioni. L’ingresso di questa nuova proprietà coincise con trasformazioni organizzative che portarono ad un rapido cambio di organico dell’azienda, ricorrendo ad incentivi pubblici vari: Furono assunti lavoratori giovani e agevolati i pensionamenti, ma allo stesso tempo si dispersero professionalità  e si allentarono i legami con la città, in un progressivo arroccamento della proprietà. Venne meno la fiducia e il senso di identità della cittadinanza e dalla parte imprenditoriale l’evidenza di una mancanza di responsabilità sociale, dei doveri verso la comunità che comunque ogni impresa deve garantire nella sua attività di produzione, soprattutto sul piano della sostenibilità ambientale. Gli strascichi di questa crisi, nel 2012, hanno portato alla frattura definitiva e all’intervento della magistratura, giungendo, infine, alla rottura definitiva e all’acquisizione dell’Ilva da parte del gruppo ArcelorMittal, multinazionale indiana che è vincolata dal recupero ambientale e a cui saranno diretti ingenti finanziamenti pubblici per ridurre l’impatto dello stabilimento. Persiste, però, la grande divisione tra i favorevoli ad una chiusura definitiva dell’impianto e i sostenitori della ambientalizzazione dell’acciaieria: per ora l’Ilva è salva.