Di che cosa si ha paura? Della vendetta degli dèi, avrebbero risposto i Greci.

Di finire all’inferno, avrebbero replicato i medievali. Della peste e della carestia, avrebbe aggiunto un europeo del Trecento. Del potere statale, avrebbe potuto controbattere un uomo dell’età moderna; e, perché no, anche un nostro avo che avesse vissuto il Novecento dei totalitarismi. E noi? Di che cosa abbiamo paura, noi donne e uomini del nuovo millennio?L’uomo contemporaneo è attanagliato, ineluttabilmente angustiato da milioni di paure e di fobie. Siano queste la paura della morte o della malattia, tanto peculiare dell’essere umano, o la paura, che forse più accomuna i giovani e giovanissimi (in Italia almeno), di non riuscire a realizzarsi nella vita, l’ansia che diventa timore di fronte a un futuro incerto, forse privo della tanto agognata felicità. Si capisse poi cosa sia e come raggiungerla questa felicità: un’altra paura!. Le ragioni che stanno alla base dei timori sono cambiate nei secoli, eppure è evidente notare un punto in comune tra le varie epoche: ciò che maggiormente spaventa l’uomo è l’incertezza, l’ignoto, tutti i fenomeni e gli eventi che non sono sotto il suo diretto controllo (un’alluvione che distrugge il raccolto, lo scoppio di un’epidemia, la morte). Un’incertezza che tra i giovani italiani assume connotati peculiari, forse comuni, in realtà, alle nuove generazioni di tutto il globo: la possibilità di non realizzarsi a livello lavorativo, della carriera, della famiglia, . . . E da dove deriva tanta incertezza? La risposta più come: dallo Stato. Le istituzioni statali, che tanto spaventavano con la loro ingerenza nella vita di ognuno, con il fare distopico e assolutistico dei sovrani, gli uomini dell’età moderna, non riescono oggi a garantire a ogni cittadino quella stabilità, prima di tutto economica (ciò che, in fondo, maggiormente i giovani vorrebbero fosse loro assicurato, che se non altro, acquieterebbe le ansie di tanti giovani. La paura generata dall’instabilità che lo Stato contemporaneo sembra offrire si generalizza poi, anche al di fuori del contesto giovanile, nel condiviso timore che l’istituzione statale non possa adempiere ad uno degli indisponibili compiti che dovrebbe essere chiamata ad assolvere: garantire la protezione e la sicurezza fisica, in primo luogo, dei cittadini. “La paura non viene allora più percepita come proveniente dal potere statale, ma, al contrario, da una criminalità che le ‘forze dell’ordine’ stentano a contrastare” (Remo Bodei, ‘Sotto il segno della paura’). Agli occhi dell’uomo contemporaneo, però, riconoscere nello Stato l’unica fonte di insicurezza non basta. E invece di cercare dentro sé il seme primo di questa estenuante incertezza esistenziale e comportarsi di conseguenza, riversa i suoi timori sui più disparati capri espiatori, che diventano le ‘cause reali’ delle sue paure. Reali per l’obnubilata mente dell’uomo spaventato, o meglio, frustrato. E qual è lo strumento attraverso cui l’essere avvilito per eccellenza rende esplicita la propria paura? L’odio, che instaura con il timore un deleterio circolo vizioso che rende la vittima, schiacciata dall’insicurezza, carnefice. L’odio che diventa discriminazione. La discriminazione che diventa violenza. Ancora. Così, in una società globalizzata, aspecifica, mutevole come la nostra ci ritroviamo a puntare il dito, il post, o la pistola, in una sanguinosa lotta fratricida per la supremazia, contro i “prossimi, i visibili, chi è a portata di mano e per ciò stesso, possibile da gestire” (Zygmunt Bauman, ‘L’odio per lo straniero nasce dalla paura’). Ci si accanisce contro la donna in carriera che mette i bastoni fra le ruote al sogno di glorificazione del virile maschio dominante; e, perché no, contro l’accattone lurido che vive sotto al ponte e ci assilla chiedendoci l’elemosina, i due ‘sessualmente deviati’ che camminano per mano disturbando la quiete pubblica, il delinquente straniero che assedia le nostre città con l’unico scopo di impossessarsi indebitamente e, quindi, privarci di quel  maledetto posto di lavoro che da così tanto tempo cercavamo (e che forse, perché troppo umile, avremmo rifiutato). L’immigrato: il soggetto che, oggi, fa più paura di chiunque altro! Perché l’immigrato è uno stupratore, un assassino, uno spacciatore, ma soprattutto un opportunista; è un parassita che viene in casa nostra per mangiare del frutto del nostro lavoro, per godere dei lussi che il nostro sacrificio gli procura. Che poi dietro alla sua fuga vi siano bazzecole come guerre sanguinose, repressioni, dittature, disastri economici e collassi sociali, siamo troppo impegnati ad odiare, a discriminare, per ricordarcene. E di lottare contro i mulini a vento non ci stancheremo mai, perché il solo riuscire ad orientare la soffocante paura che ci acceca, produce in noi quel sollievo momentaneo, quel barlume di stabilità con cui riusciamo, si fa per dire, a farci luce nelle tenebre dell’incertezza.  Il trucco dell’incanto? Cercare di scampare alla tempesta dell’incertezza aggrappandosi ad un esile zattera non può che portare al naufragio delle illusioni su un’isola deserta dove la consapevolezza dell’instabilità ci logorerà , ancora e ancora. E, in quel posto sperduto nell’oceano, l’odiatore frustrato non avrà più niente e nessuno contro cui puntare il dito. E forse solo allora, si spera, si renderà conto che la vera paura è quella che prova verso se stesso. La paura di fallire, di vincere, di morire, ma, soprattutto, di esistere o non esistere abbastanza.