di Clementina Salamina

Anna Maria Cherubini è la delegata alle politiche di genere dell’Università del Salento. È una ricercatrice di fisica matematica, branca che in Italia comprende meccanica, analisi variazionale, probabilità, sistemi dinamici. Nell’ultimo periodo si sta concentrando sullo studio di questi ultimi, sistemi in continua evoluzione che modellizzano fenomeni del mondo reale. Ad esempio ha applicato i sistemi dinamici a studi di transizione, cambi di stato irreversibili, catastrofici e molto netti, come accade nei modelli di desertificazione.

Buonasera e grazie per averci concesso quest’intervista.
Lei è la delegata alle politiche di genere dell’Università del Salento. In che cosa consiste questo ruolo e cosa si intende per “politiche di genere”?

Grazie a voi, per me è un piacere. Essere delegata vuol dire ricevere un incarico da parte del Rettore per occuparsi di un argomento in particolare proponendo delle strategie politiche. Le politiche di genere in ambito accademico affrontano gli aspetti della vita universitaria alla luce dell’appartenenza ad un certo genere. Perché questo ruolo è necessario?  Perché nonostante la nostra legislazione sia completamente paritaria e antidiscriminatoria, di fatto per ragioni culturali e sociali in quasi tutti gli ambiti lavorativi ci sono differenze di trattamento o differenze effettive di carriera e di possibilità tra gli uomini e le donne. Si dà adito a discriminazioni vere e proprie, sebbene talvolta non volute né coscienti. Per accertarsi che si incentivi la parità, è necessario mettere in campo una serie di misure, dette anche azioni positive. Io mi occupo proprio di questo.

La presenza di donne nell’ambiente universitario è meno frequente di quella maschile ancora oggi?

Dipende a che livello. In Italia il numero di studenti e studentesse per la laurea triennale e magistrale è quasi uguale, anche se ci sono fluttuazioni per zone geografiche e ambiti di studio.
L’Italia e il Portogallo sono singolarità in Europa: c’è una parità, se non una superiorità di ragazze, nei corsi di laurea in Matematica. Secondo il pensiero comune, infatti, la matematica è sempre stata associata all’insegnamento, spesso considerato mestiere femminile. Per questo fino a poco tempo fa la famiglia era d’accordo con il desiderio da parte delle ragazze di studiare matematica, ma non fisica o ingegneria. In generale comunque i corsi di laurea di ambito scientifico sono frequentati da meno ragazze che ragazzi.

Dopo la laurea, come evolvono le percentuali maschili e femminili?

Anche se si riscontra una parità a livello di entrata, la percentuale di donne decresce in modo netto al livello di dottorato, più in Europa che in Italia. Questo è dovuto a molte ragioni, quasi tutte culturali e educative. Per un pregiudizio cosciente o non cosciente, la società crede che le donne siano meno portate per gli studi scientifici avanzati. Questo stereotipo ha due effetti: chi deve assumere o instradare su una carriera dà più fiducia a un ragazzo, è più disposto ad investirci soldi ed energie, e spesso le stesse ragazze si autoconvincono di non essere abbastanza brave per intraprendere un dottorato.

C’è stata un’occasione in cui è stata oggetto di tale pregiudizio?

In realtà me ne sono accorta solo dopo alcuni anni. Ero una dottoranda e avevo il desiderio di andare a studiare all’estero, cosa che prima era possibile solo se il tuo professore aveva dei contatti con l’università straniera. Il mio professore mandava tutti a studiare fuori anche in università piuttosto prestigiose. Si presentò la possibilità di trascorrere un periodo di studio alla University of California, ma il mio professore mi sconsigliò di partire: “Per una ragazza è pesante, rimani qui, ti insegno il mestiere io”. Col senno di poi mi resi conto che ciò che io avevo visto come protezione, come qualcosa di cui essere felice, in realtà mi aveva precluso una carriera migliore, nonostante fosse stato fatto con le migliori intenzioni all’epoca. Se si smette di pensare alle ragazze come bisognose di protezione o prive di iniziativa, cambia tutto.

C’è un pregiudizio anche tra donne?

Essere donna non vuol dire essere necessariamente priva di pregiudizi o femminista (ndr: per “femminismo” si intende storicamente il movimento politico e sociale che punta all’emancipazione della donna e auspica la parità tra i sessi).  Siamo tutte figlie della stessa società. Si deve iniziare un lavoro di presa di coscienza di certi meccanismi. Alcune professoresse, senza accorgersene, tendono a definire sempre un ragazzo come “brillante” e una ragazza come “diligente”.

Quali azioni si potrebbero mettere in atto per contrastare questo?

È necessario formare i docenti, dalla scuola all’università, scardinando l’arcaicità di alcuni ragionamenti. Durante i corsi di formazione, è vitale parlare anche di questo: smascherare quei pregiudizi consci e non, che riguardano spesso oltre al sesso anche l’etnia, la provenienza geografica, la classe sociale e che portano a pensare che una certa categoria di persone meriti di più il tuo impegno e la tua attenzione di educatore.

Ci sono degli studi a proposito di questo?

Sì, ad esempio uno studio della National Academy of Science. Per un posto di responsabile di un laboratorio universitario, furono mandati dei curricula identici di uomini o donne con nomi diversi anche facilmente identificabili in base alla provenienza etnica. A parità di esperienza, in genere venivano scelti gli uomini, nonostante la giuria fosse composta sia da professori che professoresse.

In ambito universitario anche i ragazzi sono oggetto di pregiudizi quando studiano in una facoltà prevalentemente femminile?

Credo di no. È piuttosto trasversale che gli uomini siano considerati più capaci dal punto di vista del pensiero astratto o tecnico-scientifico. In ogni ambito i professori universitari di prima fascia (il livello più alto della carriera accademica) sono prevalentemente uomini, in Italia solo il 18% sono donne. C’è il cosiddetto “soffitto di cristallo”: oltre un limite non arrivi, anche se hai tutti i numeri per farlo. In Italia, proprio per infrangerlo, è stata imposta una percentuale di donne nei Cda delle società quotate in borsa.

Le cosiddette quote rosa?

 Si è parlato di abolirle. Tempo fa ho letto un articolo di Chiara Saraceno (ndr: sociologa e filosofa italiana) a riguardo. Affermava una cosa molto semplice, che dico spesso: “Abolire le quote rosa vuol dire avere le quote blu”. Ma nessuno se ne accorge. Appena si decide di imporre una presenza di donne, si nota e ci si pone subito il problema della meritocrazia. Il merito non è neutro. Valutare una persona brava o non brava, capace o non capace, non è neutro. È un discorso culturale, non è un numero.

Questi provvedimenti possono trovare un ostacolo nelle stesse donne?

Non tutte le donne sono a favore delle quote rosa. Molte affermano: “Non voglio avere questo perché sono donna, voglio avere questo perché sono brava”. Per me c’è sempre questo malinteso, secondo il quale l’essere bravi sarebbe un giudizio neutro. Non lo è.

Qual è il cambiamento più importante che potrebbero attuare le quote rosa?

Il cambiamento più rilevante è culturale, di testa. Forse sono abbastanza radicale in questo, ma ritengo che certi cambiamenti culturali vadano imposti. Nel momento in cui imponi delle quote, cambia tutto in modo relativamente veloce. Ti abitui a vedere tante donne in quell’ambiente. Cominci a vedere il 40% di donne, cominci ad apprezzarle o ad arrabbiarti con loro ritenendole incapaci esattamente come fai con gli uomini. Comincia a diventare normale.
È fondamentale l’educazione sociale, è fondamentale cominciare a chiederci come ci rapportiamo con le persone. Renderci conto se parlando con qualcuno noi abbiamo in testa una griglia cognitiva che ci influenza, se abbiamo un bagaglio di stereotipi. Con un minimo di presa di coscienza, si fa un passo indietro e si inizia a porsi delle domande.

Quindi una volta che l’opinione pubblica si sia abituata, le quote rosa potrebbero anche essere eliminate?

Secondo me sì, anche se saranno necessari molti anni perché questo avvenga. Si riduce il fattore di minoranza, si smette di considerare le donne come una classe di equivalenza, ma come individui distinti e ben delineati. Si comincia a vedere una donna, non più l’idea che si ha in testa di una donna.

Ci sono delle previsioni del numero di anni che serviranno per raggiungere l’effettiva parità?

Una demografa sociale del CNR, Rossella Palomba, ha pubblicato un libro che si chiama Sognando parità, nel quale fa delle proiezioni statistiche (sulla base della situazione numerica in Italia) su quando verrà raggiunta la parità uomo-donna. Seppur partendo da ipotesi estremamente ottimistiche, le proiezioni sono deprimenti: per esempio la parità tra i professori di prima fascia alla Sapienza di Roma si raggiungerà solo nel 2487!

Quali sono quindi i modi per appianare queste differenze e raggiungere un’effettiva parità?

Il primo è educazione sociale, civica e culturale, dall’interno. Il secondo è pensare ad “imporre” questo cambiamento culturale, anche attraverso quote rosa. Il terzo è un sostegno vero al Welfare in modo tale che una donna non debba neanche trovarsi davanti al bivio tra famiglia e carriera.