di Clementina Salamina, Francesco Piccinno, Alessia Podo, Elena Quaranta, Luca Ricchiuto, Fatou Tounkara

Il Cinquecento, periodo storico di grandi novità, ma anche di spaesamento e perdita di punti di riferimento per l’essere umano, sembra quasi tornato. 
L’individuo del Ventunesimo Secolo si ritrova senza più alcuna certezza, senza nessuna percezione della realtà, fortunatamente svegliato dal suo sonno della ragione dai veri detentori del sapere: i negazionisti. 

Costoro si muovono nell’ombra del Web, laureandosi su Facebook, attingono a testate misconosciute perché ostacolate dai poteri forti, organizzano manifestazioni in piazza per la difesa dei propri figli, della salute, della libertà. Ogni tanto cercano di bruciare qualche mascherina. Che siano ignifughe poco importa…
No Mask, terrapiattisti, No Vax, negazionisti dell’Olocausto, dello sbarco sulla Luna e del Covid-19: ecco i nuovi intellettuali a cui il cittadino deve affidarsi, in quest’epoca buia senza il lume di una conoscenza indipendente, a dispetto di coloro che li definiscono complottisti.

Complottismo. Un fenomeno che, fuor di ironia, affolla il Web e i gruppi di Whatsapp con catene di messaggi discutibili. Sostantivo non rintracciabile su dizionari un po’ datati, indica l’arte di immaginare dietro ogni avvenimento un complotto, un retroscena oscuro.

Secondo Mark Fenster, autore del saggio “Conspiracy Theories”, il complottismo è un sintomo di alienazione sociale: chi ci crede è spesso disconnesso dalla realtà, sfiduciato nei confronti del governo e di qualsiasi potere, e, affidandosi a oscure cospirazioni, in un certo senso si rende la lettura del mondo più semplice. In alcuni casi invece – Fenster afferma ancora – convincersi di essere al di sopra degli altri che si fanno soggiogare dai presunti “poteri forti” è un modo per sentirsi nel giusto rimanendo fermi sulla propria posizione. Tutti i complotti riportano delle caratteristiche simili: i cospiratori sono individuati come i potenti, i ricchi, gli scienziati, che mirano a nascondere ogni traccia dei loro presunti loschi affari per non farsi scoprire dal cosiddetto “uomo comune”.

Ma il complottismo non è solo una realtà moderna: affonda le proprie radici nel passato.
Fin dalla Rivoluzione Francese, infatti, l’invenzione di complotti e notizie false per giustificare le proprie azioni era in auge, sia da parte dei rivoluzionari che da parte dei monarchici: i rivoluzionari difendevano l’uso smisurato della ghigliottina come necessario per scongiurare una presunta cospirazione aristocratica contro il rinnovamento; i monarchici attribuivano a forze oscure l’organizzazione dell’azione sovversiva.

Nel 1917 nel panorama mondiale si affacciò un esempio di complottismo su larga scala:   i “Protocolli dei Savi di Sion”, pubblicato nel 1903, narrante di una presunta congiura degli Ebrei al fine di conquistare il mondo. Con la stesura dei Protocolli (in realtà opera realizzata da  un falsario, Mathieu Golovinski, su commissione della polizia segreta russa), l’ossessione antisemita trovò quindi un efficace pretesto. Testo originario della Russia, dove l’antisemitismo era profondamente radicato, si diffuse a macchia d’olio, assunto come prova inconfutabile dell’intenzione di imporre un “Re degli Ebrei” come “Re del mondo”. Il falso raggiunse il suo successo grazie alla semplificazione della realtà e all’indeterminatezza storica, che permisero di attribuire il complotto a un nemico, qualunque esso fosse. Il nemico, il capro espiatorio, il carburante inesauribile di qualsiasi propaganda populista tesa a distogliere l’attenzione dai veri problemi.

Nonostante Il “Times” nel 1921 avesse smascherato la falsità dei Protocolli, essi continuarono a circolare: nel 2002 in Egitto fu trasmesso un serial incentrato su un presunto piano ebraico per la conquista del mondo, l’11 settembre 2001 circolò la voce (in seguito smentita) che gli Ebrei non si fossero recati al lavoro quel giorno, avvertiti da servizi segreti israeliani, attribuendo quindi l’attentato a un complotto e non all’organizzazione terroristica Al Qaeda.

Calunnie di questo tipo, informazioni false, bufale: nel ventunesimo secolo hanno preso il nome di fake news. Ogni complottista degno di questo nome è un maestro nell’invenzione e divulgazione di esse: le parole d’ordine sono velocità e immediatezza. 

Secondo uno studio di alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology di Boston, “The spread of true and false news online”, una storia completamente inventata ha il 70% di probabilità in più di essere retwittata di una vera e raggiunge i primi 1500 utenti a una velocità sei volte maggiore di una notizia affidabile. Cosa permette alle fake news di avere questa popolarità? Fanno spesso leva sulle emozioni umane più forti, come curiosità, disgusto, spavento e sorpresa, inducendo il lettore a condividerle colpito anche dall’originalità rispetto alle notizie affidabili. 

L’informazione consapevole è infatti passata in secondo piano. Nessuno è esente da questo processo, nessuno può permettersi di elevarsi al di sopra di chi non controlla una notizia falsa prima di inviarla agli amici del bar. Siamo tutti colpevoli. Colpevoli di pigrizia. Il desiderio di sapere di più, con l’avvento di piattaforme attraverso le quali basterebbe un clic e una pagina Web affidabile per avere accesso all’informazione, paradossalmente si è fortemente ridotto. Certamente alcune persone sono più informate di altre, ma hanno comunque la presunzione di sapere tutto ciò che serve su alcuni argomenti. Come afferma Gianrico Carofiglio: “Gli incompetenti sono inconsapevoli – ignoranti – della propria ignoranza”.

Dobbiamo riscoprire una ricerca incessante della conoscenza, soprattutto in un momento storico in cui la cultura sarebbe alla portata di molte più classi sociali che in passato.  Ma non è possibile senza delle guide, senza dei maestri, senza dei punti di riferimento.
Senza la riedificazione di un ruolo che appare dimenticato: l’intellettuale. 

Se prima era in grado di spostare l’ago della bilancia delle votazioni, sia come intellettuale organico secondo il disegno di Gramsci, sia come voce fuori campo indipendente, oggi l’intellettuale è relegato ai margini della scena politica. Sembrano non occorrere più critiche costruttive e disegni, progetti: ciò di cui si va alla ricerca sono i buoni comunicatori.

Ma una comunicazione efficace e diretta non è quella che tende a un impoverimento del linguaggio e del pensiero: mirata a raggiungere più cittadini possibili, li sminuisce tuttavia, non riconoscendoli come individui in grado di comprendere un concetto ben articolato. Buona comunicazione, esatto opposto della manipolazione, significa invece scegliere in modo preciso i termini, pesare le parole piuttosto che il tono di voce e trasmettere contenuti validi, riscoprendo il valore della conoscenza e di conseguenza il ruolo perduto dell’intellettuale.

In una società sempre più complessa, infatti, non ci dovrebbe essere ormai spazio per l’ignoranza, ma solo per spirito critico, competenza nel proprio campo e un po’ di sana compassione per chi complica una realtà che gli risulta incomprensibile e a tratti spaventosa, cercando chiavi di lettura in complotti inesistenti.