di Diletta Nappo –
Nessuno può mettere in discussione l’indelebile impatto che i Pink Floyd impressero nella cultura musicale di mezzo secolo fa, quando, l’1 Marzo del 1973, pubblicarono il successo “The Dark Side Of The Moon”.
Melodie evocative e dalle sfumature cupe accompagnano testi, che raccontano dell’avidità, della mortalità e del delirio, distinguendosi da ogni tipo di sperimentazione musicale precedente all’uscita di tale capolavoro.
“Dark Side” rimase, quasi 14 anni dopo la sua uscita, ben esposta nella Billboard’s Top 200, prevalendo sui generi punk, hip-pop e disco della MTV. E anche più tardi, quando nell’era digitale l’album ritornò nelle classifiche su CD, molti volevano comunque un proprio vinile. Nel 1973, l’album poteva essere utilizzato per sfoggiare un nuovo stereo; e per chi aveva avuto una brutta giornata, era possibile ascoltarlo su cuffie.
I rintocchi che segnano il tempo che scorre aprendo la traccia “Time” sono sorprendentemente realistici, mentre il movimento perpetuo dei synth di “On The Run” ha un effetto da capogiro. L’inizio e la fine di “Dark Side” sono marcati da battiti di cuore, un esempio di alternanza tra ultrasuoni notevolmente pronunciati e sonorità che invece possono essere percepite dall’uomo. Quando nei primi anni ’70 i Pink Floyd proposero il “record”, ci si trovava nel periodo d’oro del prog-rock. Band come Genesis, Yes e King Crimson ci fanno capire come tale fenomeno fosse maggiormente diffuso in Britannia. Il prog era caratterizzato dall’elaborazione approfondita di concetti astratti e spesso complessi, attraverso melodie che spesso completavano canzoni piuttosto lunghe. Ma l’inizio di questo decennio fu anche segnato dal lento abbandono delle ideologie utopiche della corrente hippie. “Dark Side” può quindi anche essere percepito come una descrizione di promesse e speranze ingenue che vengono lasciate morire col tempo. In seguito all’addio di Syd Barrett nel 1968, che dovette lasciare il gruppo per questioni di salute mentale, Roger Waters emerse e portò con sé degli argomenti più saturnini: i soldi, il tempo, la guerra, la morte e le complicazioni della vita di tutti i giorni permettono all’ascoltatore di percepire l’austerità del racconto di Waters.
La dinamica dell’album cresce fino a “The Great Gig In The Sky”, che chiude il lato A. Le tastiere da processione di Wright accompagnano l’affascinante improvvisazione vocale di Clare Torry. Il dolore e la libertà espressi dalla sua voce raffigurano la paura della morte e della caduta nell’oblio. “You’ve got to go sometime”