“Shoah, frammenti di una ballata” è uno spettacolo ideato e interpretato da Fabrizio Saccomanno, accompagnato dal violoncello suonato da Redi Hasa, musicista e compositore.

Questa rappresentazione presenta la Shoah attraverso l’esperienza di quattro bambini vissuti durante il periodo dell’Olocausto in Ucraina, Ungheria, Polonia e Italia. Allo spettacolo è seguito un dibattito tra l’attore e gli studenti che hanno posto le loro domande. La storia che avete rappresentato è reale oppure l’avete immaginata voi?La Shoah e le sue tragedie sono così grandi che non c’è bisogno di inventare nulla. Siete a conoscenza dei nomi dei bambini che avete messo in scena?Abbiamo raccontato varie vicende e quindi ci sono vari bambini, alcuni sono più piccoli e altri sono più grandi. Il nome del primo bambino “Ucraina ‘42”, ovvero il bambino abbandonato nel bosco, Aharon Appelfeld. Ci ha lasciato due anni fa, esattamente il 3 gennaio, ed è riuscito a sopravvivere vivendo sette mesi nel bosco in Ucraina, a -20°C, dormendo sugli alberi e cibandosi di bacche e more. Aveva 5 anni e mezzo quando la madre, prima della fucilazione, lo salvò spingendolo a scappare nei boschi. Le altre storie raccontate sono comuni a più bambini e quindi possono avere vari nomi. Sicuramente quando parlo dell’Ungheria, uno dei riferimenti che ho è Elie Wiesel, premio Nobel per la letteratura, scomparso invece l’anno scorso. Lui raccontò quello che accadde nei villaggi ungheresi. Sono tanti i bambini che sono morti e molto pochi quelli che si sono salvati, alcuni di loro sono diventati formidabili scrittori, uno tra i quali il nostro Primo Levi, che però non era un bambino al tempo. Ad un certo punto, mentre recitavi, hai pianto. Era programmato oppure ti sei fatto trasportare dalle emozioni?Ci sono sempre degli appuntamenti emotivi, questa è la terza mattina di seguito che mettiamo in scena questo spettacolo, non è casuale, ma è proprio la storia che va così. È stato costruito così e quindi la mia macchina corporale reagisce così in questi momenti. Non era necessariamente voluto, è che in prova accadeva e quindi ora accade sempre negli stessi momenti. L’ultimo bambino parla di un viaggio su una nave verso la Palestina. Com’è andato a finire?Il bambino è arrivato alla sua destinazione. Tutte le persone sulla nave sono arrivate e immaginate la loro difficoltà: bambini che parlano le più diverse lingue arrivano in una nuova terra e vengono messi nei campi di lavoro e molti di loro hanno seguito la carriera militare. Con grande difficoltà, alcuni sono riusciti a sopravvivere e a costruirsi una nuova vita, tenendo conto che si trattava di un nuovo ambiente da soli. Sono delle persone per cui la Shoah non è finita del 1945 e infatti io racconto l’episodio ambientato nell’Italia del 1946. La guerra è già finita ma per loro è come se continuasse perché è solo dopo che la tragedia finisce, che davvero ci si rende conto di ciò che gli occhi hanno visto e delle atrocità che sono state commesse, e spesso gli adulti si rendevano conto delle azioni terribili commesse ma non è una colpa che può essere giudicata. Come disse Primo Levi, “I migliori tra noi sono quelli che sono morti per primi”, perché spesso chi è sopravvissuto l’ha fatto sulle spalle di altri. Lo stesso Primo Levi sentiva il peso di essere sopravvissuto perché sa che tanti compagni non ce l’hanno fatta e sa anche che lui è stato un privilegiato.  Qual è il significato della ripetizione di alcune frasi?Non ha un significato preciso, è un modo di parlare, ma dipende. Quando il bambino è in Ucraina, racconta alcuni ricordi del suo passato in maniera molto confusa, ma è felice che non piove più da due giorni. Per noi è una cosa banale, ma se vivi in un bosco e improvvisamente sta arrivando la primavera, anche l’odore che senti nell’aria può essere una cosa bellissima. Nel secondo caso invece, quando ripeto “Ma adesso è il tempo della pace”, è una ripetizione drammaturgica perché a scuola insegnano a tutti noi che dopo la guerra c’è la pace, ma in realtà le cose sono sempre più complicate. Vai a dirlo a un orfano che stava in un campo profughi a Napoli nel 1946 se quel periodo per lui era pace. Per questo io continuo a dire “Ma adesso è il tempo della pace”, è un gioco che faccio con voi spettatori quindi l’utilizzo può variare. Spesso le ripetizioni in teatro hanno una forza di scrittura drammaturgica per lo spettatore, oppure possono avere una forza per chi parla. Lei ha deciso di riprodurre queste immagini così importanti, l’ha fatto perché ha avuto delle testimonianze autentiche sull’Olocausto o perché si è sentito di farlo a livello morale?Ho sicuramente avuto dei fatti autentici perché sono davvero infiniti. Ora abbiamo dei mezzi enormi per informarci, tra cui della pagine di letteratura bellissime. Oltre a quelle degli scrittori, abbiamo anche delle testimonianze dalle persone comuni e sono altrettanto toccanti. Rispetto alla questione morale, il mio approccio è stato questo. Inizialmente, quando mi è stato chiesto di fare questo progetto, volevo lavorare sulla Shoah perché ritengo che, anche se è stato prodotto moltissimo materiale al riguardo, servisse uno spettacolo per spiegare l’accaduto alle scuole superiori in un modo diverso. Ho cercato una strada e la prima regola che mi sono dato è che io non conoscevo la Shoah. La verità è che ognuno di noi conosce tutto a riguardo perché è così sin dalle scuole elementari e soprattutto medie. Io avevo bisogno però di fare finta di non sapere più nulla e ricominciare in maniera pura, libera e rileggere la Shoah. La scelta personale che ho fatto è che mi interessava molto di più la memoria di chi all’epoca era un bambino perché non aveva gli strumenti per capire nulla. Per me e per voi, ora è abbastanza semplice capire cosa è bene e cosa è male, ma quando si è piccoli e ci si trova in qual mondo là, non è facile capirlo. Loro che sono stati bambini, e spesso orfani, hanno perduto interi mondi. Hanno perduto i loro usi, i costumi e la loro lingua, che è la grande tragedia della Shoah. Aharon Appelfeld per tutta la vita ha cercato di studiare la lingua che suo nonno, i suoi genitori e anche lui da piccolo avevano parlato, ma non ce l’ha mai fatta. È morto un mondo intero. Immaginate, è come se noi salentini venissimo tutti sterminati e si salvassero solo poche persone. Dopo 60 anni nel Salento si parla solo inglese, neanche l’italiano e men che meno il dialetto. Magari rimane in qualche canzone, come in certe arie di pizzica. Da questo capiamo che non è solo la scomparsa delle persone, è tutto un mondo che non è mai più esistito. Lo sforzo di certi bambini dell’epoca è stato proprio quello di ricucire quel filo tagliato per sempre e con molta fatica hanno ricucito solo brandelli di tessuto. Questo era quello che a me interessava in particolar modo e che mi faceva battere forte il cuore. Poi avevo bisogno di creare un lavoro che non spiegasse la Shoah e non diventare una lezione di storia. Purtroppo, le lezioni di storia non ci avvicinano alle cose e lo dico non contro i professori, ma di fatto, nel modo in cui vengono raccontate le cose a scuola, queste diventano poi numeri, date, episodi e azioni. L’arte, il teatro e il cinema possono invece cogliere il particolare e amplificarlo e possono farci entrare in risonanza empatica con le cose. Se non sfondiamo la razionalità e non entriamo in empatia con ciò che accade, un siriano è un siriano e non è un ragazzo di 22 anni che scappa dalla guerra. Allora se un ragazzo che sta scappando dalla guerra e non ha nulla addosso, non è più un invasore ma diventa un uomo che cerca di sopravvivere. Allora lì forse cambia qualcosa in noi e possiamo fare qualcosa per migliorare i nostri giorni piuttosto che fare finta che non sia un nostro problema. La Shoah in realtà non è solo inerente i tedeschi e gli ebrei e se noi pensiamo questo siamo proprio fuori pista. Vasily Grossman, nonostante tutto l’odio che possa avere nei confronti di Hitler, ha scritto una frase che poi spesso altri sopravvissuti hanno citato: “Il peggior delitto di Hitler non è stato sterminare gli ebrei ma è stato aver risvegliato il male in ognuno di noi. ”. La Shoah è un esercizio morale che tutti dobbiamo praticare ma non per ricordare quegli episodi. La Shoah si ripeterà? Certo, si sta già ripetendo, non in quelle forme, non in quelle misure ma accade. Noi abbiamo la libertà di fare quello che vogliamo ma purtroppo la libertà di pensare onestamente e moralmente quello che noi vogliamo pensare, quella ce la dobbiamo guadagnare. In ognuno di noi alberga il male e infatti c’è stata una cosa che mi ha sorpreso molto mentre studiavo la Shoah per questo spettacolo. Quando il signor Hitler promulga le leggi razziali in Germania, i primi a osannarlo sono i professori delle università americane. Loro dicono che Hitler ha avuto il coraggio di mettere per iscritto ciò che loro andavano affermando da anni, sul concetto di eugenetica. Questo concetto è stato sposato da tutto il mondo, tutto il mondo pensava che gli ebrei non potevano più essere sopportati, che esistono razze superiori e razze inferiori e che era lecito applicare l’eugenetica. La Shoah ci insegna a riconoscere il vero dal falso e il giusto dallo sbagliato.