Usiamo mezzi per ricordare, perchè uccidere un ricordo fa più male che riportarlo alla memoria.

Parliamo di numeri, sei milioni di morti, che restano tali fino a quando non si racconta la storia di ognuno di essi. Numeri che sono padri, madri, famiglie distrutte, fratelli, amici, persone che si amavano, che si odiavano, strappate alla propria quotidianità. Così fissiamo date sui calendari, riproduciamo film, documentari, leggiamo testi e testimonianze, scriviamo canzoni. “Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento”, scrive Guccini in uno dei brani più toccanti che possano essere stati mai regalati alla nostra memoria. La cruda realtà descritta in rime, con versi empatici che toccano i resti di una strage ogni giorno più lontana, ma ancora tangibile e concreta nelle menti. E poi, spietatamente strazianti, risuonano i versi del Salmo 23 in voci di bambini ancora troppo piccoli.  “Gam Ki Elekh, beghe Tzalmavet, lo Ira Ra, ki Atta Immadì” insegna a cantare loro una maestra, in un lager. “Anche se andassi nella valle oscura non temerei alcun male, perché Tu sei sempre con me”, dicono. Nei testi e nelle musiche dell’Olocausto si raccontano ed echeggiano treni, viaggi di sola andata, razze non conformi ad una ideologia, terrore. E perchè queste cose possano continuare a riflettersi per far riflettere, devono essere raccontate. Usiamo, quindi, mezzi che possano aiutarci a ricordare, perché “Olocausto” è qualcosa di troppo grande, che il tempo non riuscirebbe a lenire. “Puoi pure non guardare, ma è impossibile che non vedi”.