di Cristina Milanese –

Il dominio dei mari è il dominio del mondo

La supremazia geopolitica di un egemone è anche questione marittima. Mari ed oceani determinano la profondità strategica di una superpotenza. Lo sforzo di proiettarsi oltre la terra ferma, trasformandosi in talassocrazia, è passaggio cogente per determinare le traiettorie globali. La capacità di unificare tutte le acque sotto il proprio controllo, di renderle Pantalassa, è ciò su cui si fonda la globalizzazione, fenomeno tutt’altro che contemporaneo, riscontrabile già nel dominio del Mediterraneo della pax romana di età augustea e nella pax britannica di era vittoriana. 

Oggi la globalizzazione è a stelle e strisce. Gli Stati Uniti dominano i colli di bottiglia nevralgici delle rotte marittime, unendo potenza commerciale a ubiquità militare, proiettando la propria influenza sul globo. Proporsi come alternativa al mondo unipolare statunitense significa strappare a Washington il controllo di almeno una parte dei flutti. La potenza sfidante deve avere l’imperativo strategico di lanciarsi sull’acqua, l’egemone imperante quello di impedirglielo. E’ su questo campo che si misurano ad oggi i giochi di forza tra Stati Uniti e Cina. Le coordinate geografiche in cui tale sfida si concentra sono quelle di Taiwan. 

Taiwan, l’isola incandescente

Isola posta a soli 150 chilometri dalle coste cinesi, Taiwan è il tallone d’Achille della Repubblica Popolare Cinese. Per storia, collocazione geografica e strategia. Considerata per millenni un’insignificante “palla di fango al di là del mare”- come fu definita dall’imperatore Qing Kangxi – oggi Formosa è la barriera che costringe i Cinesi sulla terra, impedendo loro ogni tentativo di lanciarsi sull’Indopacifico. Con il compiaciuto beneplacito degli Americani, per i quali Taipei è avamposto strategico per conservare la propria egemonia. Contro ogni fantasia di Pechino di affermarsi definitivamente, entro il 2049, come l’Unica Cina, assimilando Taiwan come ventitreesima provincia del suo territorio. 

Taipei rappresenta infatti l’altra Cina, quella nazionalista e democratica, alternativa alla “vicina” comunista. La genesi di Taiwan come “Repubblica di Cina” – nome ufficiale dello Stato – risale alla guerra civile tra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong. La vittoria di quest’ultimi con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese il 1° ottobre del 1949 non impedì a Chiang Kai-shek di ritarsi sull’isola e costituire il governo della “Repubblica di Cina”. Fu quest’ultima ad essere riconosciuta come stato de iure presso le Nazioni Unite. Almeno sino al 1971, quando l’apertura alla Cina maoista da parte di Nixon e Kissinger in funzione antisovietica determinò il riconoscimento della Repubblica Popolare come unica Cina da parte degli Stati Uniti e dell’Assemblea Generale dell’Onu. 

Da allora Taiwan esiste solo per appena 14 Stati. Poco conta visto che Washington ha scelto di costruire una propria “ambiguità strategica”, coltivando proficue relazioni informali con Taiwan, culminate nel Taiwan Relations Act del 1979. Con esso gli USA accordavano a Formosa la fornitura di “servizi di difesa nella quantità necessaria per consentire a Taiwan di mantenere una sufficiente capacità di autodifesa”. Di più. Nei primi anni 2000 Washington ha avviato un’alleanza informale con Australia, Giappone ed India (QUAD) per una capillare strategia di contemimento verso Pechino nell’Indopacifico. 

Il braccio di ferro sulla tecnologia, tra protezionismo e strategia

La strategia statunitense, dunque, non contempla la revisione dello status quo attuale.

Washington è ben felice di vedere la RPC incapace di insidiare il proprio controllo sulle rotte marittime e gli istmi cruciali come Taiwan, da cui transita il 40% del commercio globale, un quarto del quale americano. E tramite massicce importazioni continua a tenere legata alla propria globalizzazione e alla forza del dollaro la Cina, tra i principali creditori degli USA, con ben 967,8 miliardi di dollari di debito governativo statunitense (a giugno 2022). 

Tuttavia, consci della possibilità di un’invasione cinese ai danni di Formosa, gli Americani sarebbero pronti ad intervenire sul campo, per via dell’elevata posta in gioco. A differenza di quanto avviene oggi in Ucraina con l’approccio della guerra per procura, intereventismo “da remoto”. Gli Stati Uniti dunque si preparano alla sfida sul campo. Per non essere colti di sorpresa dal Dragone, per far sì che il divario che tutt’oggi assicura loro la supremazia non venga colmato. 

In quest’ottica si inserisce il CHIPS and Science Act, provvedimento bipartisan da 280 miliardi di dollari che mira a implementare la produzione interna di semiconduttori, oggi attestata al solo 12% della produzione mondiale. I beneficiari dei sovvenzionamenti però devono impegnarsi per i 10 anni successivi al finanziamento a non espandere la produzione dei semiconduttori nella Repubblica Popolare. Questo perché i semiconduttori sono alla base delle più avanzate tecnologie, dai semplici cellulari sino a sofisticati sistemi militari, e gli Stati Uniti non possono né dipendere dalle industrie cinesi, né permettere che i suoi più innovativi sistemi vengano replicati dal suo principale sfidante, con il pericolo che le proprie “armi” gli si ritorcano contro. 

Da questa analisi dei rischi, la cautela americana verso Huawei negli anni scorsi e Tik Tok di recente. Nel primo caso Washington ha negato all’azienza cinese l’accesso ai chip statunitensi e ad altre componenti hi-tech oltre che ai servizi Google, per timore che Pechino sfruttasse i dispositivi Huawei per attività di sorveglianza o spionaggio ai propri danni. Da allora la risonanza mediatica del marchio si è notevolmente attutita, determinando una sensibile contrazione delle vendite anche in Italia. Nel caso del social media Tik Tok i timori sono i medesimi. L’applicazione raccoglie dati che i gestori dell’azienda proprietaria, in base alle leggi cinesi sulla sicurezza, sarebbero costretti a condividere con Pechino. Dal riconoscimento facciale, alle preferenze di navigazione sino alla posizione. Ciò permetterebbe agli apparati cinesi di studiare a fondo la generazione Z americana, la stessa che in futuro si potrebbe ritrovare coinvolta in una guerra con la RPC.

Conclusioni

La partita tra Stati Uniti e Cina si combatte ad oggi su più fronti. La rivalità tra le due potenze da “virtuale”- dunque puramente economica e commerciale – è destinata a tramutarsi in scontro fisico, sul campo. O più probabilmente sulle acque, nell’Indopacifico. Gli sviluppi preparatori alla “guerra guerreggiata” ci diranno se e come la Cina si spingerà oltre la dimensione prevalentemente terrestre delle Vie della Seta.  E se gli Stati Uniti riusciranno a difendere la pax di cui sono oggi protagonisti, conservando il tridente di Nettuno e dunque la supremazia globale.