a cura del prof. Francesco Guido

Tra tutte le produzioni agricole che, in misura prioritaria, sono presenti nel nostro territorio, sicuramente l’olivo e la vite rappresentano le colture che maggiormente lo connotano e lo caratterizzano, fino a costituire un segno distintivo e peculiare  dell’intero paesaggio agrario salentino.  

Relativamente alla olivicoltura, per secoli il nostro olio, quasi tutto lampante e per usi industriali (lavorazione di tessuti,  produzione di saponi, ecc.) e solo in parte da alimentazione, ha rappresentato uno dei maggiori prodotti da esportazione non solo  nel resto dell’Italia, ma anche in molti paesi europei. Non a caso Gallipoli fino a tutto l’Ottocento ha costituito lo snodo  principale da cui il prodotto veniva esportato. A contribuire all’importanza del porto ionico partecipava tutta una serie di operai  e manovali (trasportatori, scaricatori, fabbri, falegnami, bottai, ecc.) che, inseriti in una catena commerciale, costituivano un  indotto che dava lavoro e sostentamento a tanta gente, così come, nelle campagne, oliveti e frantoi rappresentavano la stessa  catena sul piano produttivo.  

La coltura degli olivi era sviluppata già in epoca romana, anche se in misura molto marginale: l’olio non si conosceva come  alimento, bensì come “aroma”, utilizzato come unguento e cosmesi.  

A seguito dei contatti coi Bizantini nel IX secolo, il commercio dell’olio (esportato anche come condimento dell’alimentazione  contadina) prese il posto di quello del grano (perciò molti frantoi sorsero sulle rovine dei granai d’età precedente).  La coltura acquisì notevole importanza dall’ XI secolo in poi grazie al fondamentale supporto dei monaci Basiliani.  A partire dal secolo XVI nella Terra d’Otranto la superficie adibita ad oliveto aumentò in maniera considerevole, con un  conseguente incremento della produzione di olio. Nel Salento in modo particolare, prima che il batterio della Xylella colpisse le  nostre piantagioni, si stimavano circa 25 milioni di alberi di olivo, corrispondenti alla metà dell’estensione olivicola in Puglia.  

I frantoi (ipogei e semi-ipogei) costituiscono una testimonianza fondamentale del nostro passato non solo per le connessioni di  natura storica ed economica che presentano, ma anche per le significative interazioni sotto il punto di vista politico e sociale, descrivendo un sistema di vita e di lavoro, perpetrato per secoli con modalità sempre uguali.  

Costituiscono l’esempio di come era organizzato il processo produttivo oleario nei secoli passati, basato essenzialmente sullo  sfruttamento di una manodopera a buon mercato che, molto spesso, era sottoposta a condizioni esistenziali quasi disumane.  Dai Catasti onciari di metà Settecento emerge che i “trappeti per molir le olive” nel Salento erano più di un migliaio.  

Entrando, oggi, in un trappeto sotterraneo si ha subito l’impressione di tornare indietro nel tempo, di trovarsi in un mondo arcaico, lontano dalla realtà attuale. Pur tuttavia, questi luoghi, così poco ospitali e confortevoli, tanto tetri e tenebrosi, hanno  continuato a funzionare (almeno alcuni di loro) fino alla metà del secolo scorso.  

Tuttavia, a fronte di una grande rilevanza data all’olivicoltura, spesso sul piano concreto corrispondevano metodi arretrati di raccolta e trasformazione delle olive. Ad esempio, da un lato si raccattavano le olive quando erano troppo mature e cadevano a terra (dove si caricavano di un elevato grado di acidità), dall’altro la trasformazione avveniva in ambienti e in condizioni di lavoro pessimi, tanto da rendere l’olio spesso inservibile per l’uso alimentare, ma comunque ottimo per combustione e illuminazione, uso industriale (olio lampante).  

D’altra parte, nonostante l’introduzione in pieno Ottocento delle presse meccaniche o idrauliche, nelle nostre zone, fino alla  quasi metà del Novecento, continuarono ad essere utilizzati i frantoi ipogei secondo i vecchi sistemi tradizionali.  

Il motivo più comunemente noto, che faceva preferire il frantoio scavato nel sasso a quello costruito a pianterreno, era la  necessità del calore. Erano ipogei perché il ciclo di lavorazione delle olive necessita di un ambiente caldo (l’olio solidifica  infatti a 6°), con temperatura costante (tra i 18° e i 20°), per favorire il deflusso dell’olio quando le olive erano sottoposte alla  torchiatura; il calore era generato dalle lucerne che ardevano giorno e notte, dalla fermentazione delle olive, dal calore prodotto  dalla fatica fisica di uomini, operai e animali, dalla mancanza di aperture oltre a quelle strettamente necessarie.  

L’ambiente sotterraneo, inoltre, assicurava anche una migliore conservazione del prezioso liquido.  

Accanto a questo, tuttavia, vanno considerati anche altri motivi, principalmente quelli di ordine economico. Il costo della manodopera per ottenere un ambiente scavato era relativamente modesto perché non richiedeva l’opera edilizia di  personale specializzato, né necessitava di spese di acquisto e trasporto di materiali.  

Il frantoio ipogeo, inoltre, presentava il vantaggio di permettere il rapido e diretto svuotamento dei sacchi di olive nelle cellette sottoposte, attraverso le aperture che avevano al centro della volta.  

I frantoi ipogei sono stati dimessi a partire dal XIX secolo, gradualmente sostituiti da quelli semi-ipogei (realizzati tra il 800 e il  900, ambienti coperti da conci di tufo che poggia direttamente sulla roccia o su muratura), prima e da quelli elevati poi  (dall’inizio del 1900 in poi; le strutture erano costruite sopra il piano di campagna).  

Il termine “trappeto”, comunemente usato dalle nostre parti, proviene dal vocabolo latino “trapetum” e da quello greco  “τραπητον = trapéton, parole con cui, in quelle lingue, si indicava il torchio, la macina, la pressatura (in realtà nel greco antico  il termine, così come usato da Esiodo e Omero, era riferito, in maniera specifica, alla pigiatura dell’uva). 

A scavare manualmente nel banco di roccia tufaceo o calcareo erano i cosiddetti “foggiari”, manovali quanto mai esperti sia nel  lavoro vero e proprio, sia nel saper riconoscere a vista il tipo di roccia, compatto e senza crepe, dove poter procedere allo scavo. Ogni frantoio, per le diversità delle strutture architettoniche che lo caratterizzano, ha forma unica, dovuta proprio  all’adattamento degli ambienti alle necessità contingenti. Spesso è articolata e complessa, con planimetria irregolare, dai  contorni fortemente compositi delimitanti generalmente un ampio spazio centrale attorno al quale si sviluppavano gli ambienti. 

L’interno, sottoposto di almeno 3 metri rispetto al livello esterno (nello specifico lo spessore tra l’intradosso della volta interna  degli ambienti ed il piano di calpestio superiore variava notevolmente, con parti più base ed altre più alte) e alto circa 2-3 metri, era caratterizzato da un arredamento quanto mai essenziale, spesso costituito o ricavato nella roccia (angoli per giacigli, spazi  per depositi, sedili, ripiani, ecc.).  

Di solito i trappitari (i frantoiani, ovvero gli addetti alle varie fasi della lavorazione) erano quattro più il loro capo, chiamato “nachiro”, e di solito erano operai stagionali che, mentre nel periodo estivo svolgevano il mestiere di marinai, nella stagione  fredda si chiudevano in questi antri sino alla fine della fase della spremitura (generalmente si rimaneva chiusi da novembre fino  a marzo-aprile, salvo la possibilità di tornare a casa durante le feste più importanti).  

Da qui la giustificazione per l’uso di molti termini marinari che troviamo in questo contesto. I loro rapporti con l’esterno, poi,  erano abbastanza limitati in quanto erano già abituati sulle navi a vivere senza socializzare e ad avere ritmi di lavoro altissimi.  Se la “ciurma” era la squadra degli operai (i “trappitari”), il supervisore, come visto, era il “Nachiro” (il padrone della nave).  Tra gli animali troviamo l’asino (lu ciucciu) oppure il mulo, che servivano a far girare le macine.  Il termine generico di ciurma sta a indicare che non erano differenziati i ruoli e i compiti degli operai (evidentemente uguali per tutti e a rotazione, salvo lu turlicchiu o paletta, generalmente il trappitaro più giovane, che aveva il compito di mantenere sotto il  torchio le olive triturate), mentre il termine nachiro (dal greco nau-cheiros = conduttore di nave, nocchiero) fa capire come l’uomo fosse il capo, autoritario e indiscusso, che dettava le regole e gestiva tutte le fasi e i tempi della lavorazione. 

Per consuetudine i contadini dovevano portare il proprio raccolto presso i depositi feudali avendo i baroni il diritto di esclusività  con un contemporaneo e imposto divieto di ogni iniziativa privata. I macchinari, spesso inadeguati al fabbisogno, facevano  protrarre la molitura; si racimolavano perciò grandi mucchi di olive che finivano per putrefarsi con buona parte dell’olio non più  commestibile, quindi venduto a prezzi più bassi e per usi non alimentari (come già visto il cosiddetto olio lampante).  

Le condizioni di lavoro nei frantoi erano precarie e non certamente delle più igieniche, tra i più svariati cattivi odori degli  animali, dei lumi, della stessa lavorazione dell’olio. L’attività, durissima e faticosissima, proseguiva per tutta la giornata, in  condizioni spesso disumane e insostenibili, 24 ore su 24, con turni di riposo all’interno dello stesso frantoio in modo da essere  sempre disponibili. Tali condizioni perdurarono non solo nel 1700, ma anche nel secolo successivo.  

Gli operai stavano scalzi, seminudi, imbrattati e senza grandi possibilità di lavarsi, reclusi per mesi peggio dei carcerati. Il  termine trappitaru ha assunto, di conseguenza, nell’immaginario delle persone, il significato di sporco, bisunto, maleodorante,  lacero, malvestito proprio perché le macchie o la puzza dell’olio rancido si fissavano sugli scarni o logori indumenti o sulla pelle  e, senza grandi disponibilità di acqua, non potevano essere eliminati.  

L’alimentazione, sempre molto povera, si basava sulle verdure e soprattutto sulle leguminose che, secche, potevano essere  conservate meglio. Tutto era condito con l’olio lavorato in loco. Anche il pane, spesso secco o abbrustolito per essere meglio  conservato, faceva parte integrante della “dieta dei trappitari” (forse nasce così la frisa o la bruschetta della nostra tradizione).  

Gli oggetti o gli strumenti utilizzati in un frantoio ipogeo erano:  

  • – le sciave, vani ripostiglio in cui venivano depositate le olive; il loro numero variava in base all’importanza o alla grandezza  del frantoio;  
  • – la vasca di frantumazione delle olive (o fonte), dove all’interno giravano 2 enormi e durissime pietre cilindriche, una più piccola (pietra dormiente) ed una più grande (pietra molare o petra de trappitu) che ruotavano sullo stesso asse; 
  • lu nuzzaru, ovvero il deposito dietro al torchio dove si versava la pasta della prima spremitura; 
  • lu conzu (composto dalla madre vite dove scorreva lu santu tunatu, altrimenti detto capu te mortu, un blocco legnoso che  rappresentava la “testa” della pressione) e la mammareddhra che erano i torchi;  
  • – la chiancula, un pezzo di legno utilizzato per lo schiacciamento dei fisculi sotto la pressione della vite del torchio; 
  • – il derfinu, blocco di pietra posto alla base del torchio avente nella parte anteriore un solco con un canale interrotto da un  varco nel quale scorreva quanto era spremuto nell’ancilu, una pila in pietra di forma cilindrica dove convogliava la  spremitura dei torchi, con in fondo un foro comunicante con una cisterna chiamata ‘nfiernu;  
  • lu nappu, recipiente di latta che raccoglieva il residuo dell’olio galleggiante sulla sentina all’interno dell’ancilu
  • – la sciuanna era un recipiente di latta con una capacità di 20 kg d’olio, utilizzata per raccogliere l’olio dai torchi; 
  • lu staru (staio) un contenitore capace di 16 kg di olio;  
  • la mina conteneva 8 kg d’olio;  
  • l’ottu pignateddhre 4 kg di olio;  
  • lu pignateddhru ½ kg di olio. Inoltre altri sottomultipli.  

Principali unità di misura: 

  • Macina: 12 tomoli ca.  
  • Stuppieddhu (stoppello): 10 kg ca;  
  • Tuminu (tomolo): 33 kg ca
  • Vascata: 6 tumini, 200 kg ca.  

Molte leggende riportano che ad animare il frantoio ci fossero anche esseri particolari, né umani né animali, i cosiddetti “uri”,  descritti come folletti dispettosi e fastidiosi, la cui origine o esistenza si perde nelle trame di miti e racconti antichissimi.