Quello del giornalista è diventato un mestiere scomodo.

O più probabilmente lo è sempre stato. Il paladino della democrazia è il più esposto alle ire e alle reazioni dei potenti, che hanno mietuto, secondo la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), oltre 800 vittime nell’ultimo decennio, 48 solo nel 2016, senza contare le aggressioni e le minacce. Ultimo caso in ordine cronologico è quello riguardante Daniele Piervincenzi, reporter di “Nemo”, trasmissione di RAI 2. Tutto sommato al giornalista del servizio pubblico è andata bene: “solo” una frattura del setto nasale. Piervincenzi si trovava ad Ostia per intervistare Roberto Spada, fratello di Romoletto, noto boss di uno dei clan più influenti e noti del litorale romano. Le domande del giornalista vertevano, stando alle sue dichiarazioni, su semplici argomenti di politica, in particolare sui motivi che hanno portato il partito Casapound a raggiungere il 25% dei voti in quel quartiere di Ostia. L’intervista, però, stava suscitando nello Spada il sospetto di insinuazioni su legami mafiosi fra il risultato del partito ed il clan della sua famiglia. Spada, allora, ha deciso di difendersi dalle domande ormai diventate fastidiose nel più primitivo dei modi: tirando una testata al giornalista ed inseguendo lui e il cameraman con un manganello. Dei due inviati l’uno ha riportato la rottura del naso, l’altro un trauma cranico. Purtroppo alla loro collega maltese, Daphne Caruana Galizia non è andata altrettanto bene: un’autobomba le ha impedito di continuare le sue inchieste sui politici maltesi e i loro legami con delle società offshore emersi grazie ai Panama Papers e alla ICIJ (Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi), aggiungendola alla  lista di giornalisti caduti in nome del loro mestiere. Proprio come era avvenuto nel caso di Ilaria Alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin, uccisi nel ’94 a Mogadisco, in Somalia:  la giornalista di RAI 3 investigava su traffici di rifiuti tossici e sul contrabbando di armi, nei quali si sospettava fossero coinvolti gli stessi servizi segreti italiani; dopo 23 anni senza nessun colpevole è stata chiesta l’archiviazione del caso nel luglio 2017. I tre casi sono legati da una dinamica simile, quasi come in un copione che si ripete periodicamente: emerge un’interessante inchiesta all’interno della quale sono coinvolte grandi organizzazioni o personalità di spicco e, alla fine, il giornalista che ha sollevato il “polverone” paga con la propria vita.  Paga per aver indagato alla ricerca della verità e per aver espresso la propria opinione, paga per la democrazia che è stata costruita tanto lentamente e con tanta fatica e che oggi, talvolta, appare limitata e retrograda perché incapace di difendere chi nel suo nome opera.  Resta il dato positivo che oggi non esiste censura:  se viene pubblicato qualcosa di rilievo si propaga a velocità straordinaria per effetto dei social media, che amplificano qualsiasi notizia. Un po’ come è avvenuto nei Paradise Papers, l’ultimo scandalo di paradisi fiscali raccontato da “L’Espresso” e “Report”: originatosi da una fuga di notizie, dopo la quale alcuni membri della ICIJ hanno deciso di andare più a fondo e, svolgendo un ottimo lavoro, hanno fatto emergere, tra le altre,  le società offshore di Bono Vox, della Regina Elisabetta II, dei Legionari di Cristo (organizzazione cattolica) e perfino della Vitrociset una società con legami con il Ministero dell’Interno e i servizi segreti italiani. Notizie come queste, a diffusione internazionale, sono davvero difficili da censurare. Sotto questo punto di vista l’avvento dei social sarebbe da considerarsi come la consacrazione della democrazia e della libertà di espressione:  poi però, ogni tanto, qualcuno gioca  con la vita di chi “ha fatto troppo rumore”. E a questo punto sorge spontanea una domanda: è davvero questa la libertà di stampa?