di Gabriele Guerrieri

La democrazia è come la vita del lupo. Il lupo è libero nel bosco, corre, cammina; ma se non ha da mangiare, non è servito da nessuno; nessuno lo porta dal veterinario se è malato: deve arrangiarsi. Il comunismo è come la vita del cane. Il cane sta bene: ha il suo lettino, i padroni lo portano dal veterinario se è malato, lo curano; ma il cane non può uscire dal suo giardino senza guinzaglio, se il padrone non lo decide.

Jana Campírkovà

Jana Campírkovà ha 46 anni, vive a Brandýs nad Labem-Stará Boleslav, cittadina ceca con il nome più lungo del Paese, a una trentina di minuti da Praga. Jana lavora come cameriera, estetista, ma soprattutto come guida turistica, ed è in questa veste che ha accompagnato i nostri studenti delle classi 5G e 5F per le vie della capitale ceca. I suoi racconti intrecciano la storia comune del Paese con le sue esperienze personali, mostrando un vivido spaccato della vita e della società di una Repubblica Ceca la cui storia è indissolubilmente legata al regime comunista che ha governato il Paese dal 1948 al 1989.
Da questo è nata l’idea di intervistare Jana, per ascoltare una testimonianza diretta di eventi e fenomeni del secondo Novecento che un liceale italiano arriva normalmente a conoscere solo attraverso i libri, senza avere la possibilità di percepire la concretezza e la vicinanza di quanto accaduto solo ieri, nell’orologio storico.

Buongiorno Jana e grazie per aver accettato di rispondere alle nostre domande.

E’ un piacere e sono io a ringraziarvi per avermi dato questa opportunità.

Lei ha vissuto direttamente gli anni del regime comunista. Cosa ci può raccontare riguardo quel periodo?

Oggi ho 46 anni; ne avevo appena 15 quando è caduto il Muro di Berlino. Eppure ricordo molto di quel periodo e tantissime sono le storie che mi sono state raccontate dai miei parenti.
Durante il regime comunista era tutto bellissimo e non posso dire che mi mancasse qualcosa: avevo tutto, i negozi erano completamente pieni. Non c’era, però, tanta scelta, e per acquistare i generi alimentari si faceva la fila. A volte, ore e ore di fila. Ricordo, ad esempio, quella che si formava per le banane. Arrivavano solo in certi periodi e, trattandosi di prodotti così rari da noi, si concedevano solo determinate quantità a testa. Allora mia mamma mi portava con sé: ci mettevamo in coda, per ingannare l’attesa giocavo con le amiche che erano lì, e quando finalmente arrivava il nostro turno, sia io che mia madre compravamo la porzione che ci era concessa. Pertanto tempo, non ho mai pensato che si potesse comprare dai negozi senza fare una lunga fila: se non conosci il benessere, non ti manca. Poi sono stata in Russia, a Mosca, e ho visto che stavano molto peggio di noi. Lì i negozi erano vuoti, non c’era nulla da acquistare, la gente era triste.

In che occasione ha visitato Mosca?

Ero una bambina. Si trattava di un viaggio per il gemellaggio russo. Ci hanno portato al circo, poi a vedere diversi monumenti, infine al mausoleo di Lenin, dove abbiamo atteso per tantissimo tempo prima di entrare. Per noi ragazzi cechi, Lenin era quasi un santo, di sicuro un uomo intelligentissimo. Era questo che ci veniva insegnato a scuola. Abbiamo aspettato vicino al Cremlino circa un paio d’ore per poter passare attorno alla mummia di Lenin: sembrava stesse dormendo. Ma potete immaginare cosa volesse dire per una bambina vederne una. Soprattutto se si trattava della mummia di colui che aveva cambiato tutto, che diceva che tutti possono stare allo stesso livello, che non c’è bisogno che uno sia più ricco e uno più povero, che l’importante è aiutarsi.

E che effetto le ha fatto comprendere che a Mosca la situazione era molto diversa da quella del suo Paese?

Io mi sentivo ricca, amavo la mia patria. Tantissimo. Sono cresciuta con la convinzione che il sistema fosse buono, che grazie al comunismo si  guadagnava, che dovevamo essere tutti uguali e io veramente vivevo per questo. E in un certo senso era così. Tuttavia, bisogna considerare che, durante il regime, il mio dottore guadagnava solo una manciata di corone in più (circa venti euro) rispetto alla signora che lavava il pavimento nella mia scuola. Il dottore aveva studiato, la signora no. E’ ingiusto, però, così lo Stato manteneva la gente allo stesso livello.

Qual era la percezione che i ragazzi avevano di quella situazione?

La nostra generazione, i cosiddetti figli di Husak, comunista slovacco che ha guidato il paese negli anni settanta e ottanta, credeva di essere fortissima. Così come tutte quelle nate durante il regime. Eravamo convinti che il marxismo leninismo fosse la migliore delle filosofie, che Gottwald, il primo ministro del regime sociale, fosse bravissimo e aiutasse chiunque ne avesse bisogno. D’altronde erano gratis la sociale, l’ospedale, le scuole. Ti regalavano i libri, i quaderni e anche le penne. 

Cosa ricorda con maggiore piacere di quegli anni?

Non c’era invidia. La gente si salutava, beveva insieme e si aiutava perché uno non aveva più dell’altro. Adesso non è così. Adesso ci si parla male a vicenda, ci sono tante gelosie. Quel mondo mi manca un po’ perché eravamo tutti amici, si usciva, si beveva in allegria.
E poi ero contenta quando la scuola ci regalava i biglietti per i film russi, quando le fabbriche di mia nonna ci offrivano gli ingressi per i vari teatri.

E si era costretti a prendere parte a queste iniziative?

No. Se però tu non andavi a teatro o al cinema offerto dal regime, non eri ben visto dalla polizia cecoslovacca, la STB e dal KGB russo. Ci tenevano d’occhio registrando chi non andava ai teatri sociali, chi non guardava i film ritenuti importanti. E così, i figli o nipoti di questi dissidenti  non potevano più scegliere di frequentare una scuola con la maturità, che permetteva il prosieguo degli studi; l’università era loro preclusa. I miei genitori, per esempio, non erano comunisti. Ma, seppure non mi fosse concesso di frequentare l’università, ho potuto studiare per conseguire la maturità perché i miei nonni erano grandi comunisti, ci credevano davvero. Per loro era un puntino nero il fatto che i genitori non partecipassero, ma mio nonno lavorava al Ministero degli Interni, quindi questo compensava.

Quindi il KGB e la STB esercitavano un’influenza importante nella vita della popolazione.

Come ho detto, mio papà non era comunista. La STB poteva chiedere a mio nonno di tenere d’occhio suo genero, ed accusarlo se per caso avesse fatto qualcosa contro i comunisti, se avesse parlato  male dei russi, della fabbrica. Accadeva questo in molte famiglie. Ogni tanto, arrivava una telefonata sulla linea fissa, la polizia pronunciava un soprannome e l’interessato sapeva che si sarebbe dovuto presentare presso gli uffici della STB per rispondere a qualunque domanda sul conto di chi si stesse tenendo d’occhio.
Capitava addirittura che padri di famiglia dovessero scendere a patti con queste polizie segrete per far studiare i loro figli. Il prezzo da pagare per la formazione dei propri ragazzi era diventare informatori della STB. Ti buttavano davvero giù. Quel padre, pur di vedere il figlio studiare, firmava questi contratti. Però poi le chiamate arrivavano e dovevi dire tutto ciò che sapevi. Così quel parente o quell’amico che non si atteneva ai dettami del comunismo, veniva arrestato. Prendeva 10, 15 anni nelle miniere dell’uranio. Se viveva, allora usciva con il cancro. E anche quegli informatori si ammalavano per il senso di colpa.

Ma certamente esisteva anche una forma di dissenso. Una delle iniziative più significative in questo senso fu Charta 77.

Charta 77 fu un documento che criticò aspramente l’operato del governo comunista in Cecoslovacchia, soprattutto in materia di violazione dei diritti umani. Tra i principali firmatari vi era Václav Havel, poeta e drammaturgo ceco che venne poi scelto come primo presidente della Repubblica Ceca al fianco di Dubcek, presidente del parlamento cecoslovacco. 

Dubcek venne eletto dopo la caduta del regime, nonostante fosse un comunista.

Dubcek era uno slovacco e credeva in un comunismo molto meno rigido. Era convinto che si dovessero garantire delle libertà alla gente. Negli anni sessanta, in pieno regime sociale, aveva proposto di aprire i confini nazionali e permettere il movimento libero della gente. Al tempo, infatti, non era facile spostarsi dalla Cecoslovacchia. Se, ad esempio, si voleva visitare la Jugoslavia, il paese con il mare più caldo tra quelli degli Stati sociali, bisognava chiedere un visto per viaggio, che poteva essere rilasciato  anche dopo un anno dalla richiesta. Se però si fosse scoperto che anche solo una ex compagna d’asilo di chi avesse fatto richiesta si era trasferita in Occidente, veniva dato il permesso per il viaggio solo alla madre con i propri bambini, ma non al padre. Avevano così smembrato la famiglia e si erano assicurati che la madre e i bambini sarebbero tornati in Cecoslovacchia. Dubcek, invece, credeva che sarebbero tornati comunque, spinti da spirito nazionalista. Prometteva alla gente la possibilità di aprire un negozio in proprio, perché – si diceva – “se la commessa lavora in proprio, può sorridere ai clienti”. Durante il regime, infatti, essendo  stipendio sempre uguale, le commesse non si impegnavano nel loro lavoro e venivano considerate da tutti dei musi lunghi. Dubcek era convinto di diventare primo ministro e anche la gente lo voleva, così come alcuni di coloro che occupavano alte posizioni nel governo.

Ma questo non avvenne mai.

Tutta questa popolarità di Dubcek non è piaciuta ai russi, che hanno mandato i carri armati e hanno chiesto ai polacchi e ai tedeschi di “aiutarci” contro noi stessi. Polacchi e tedeschi hanno risposto all’appello e per tutta la notte del 21 agosto ’68 si sentì per le strade il passaggio dei carri armati, soprattutto in piazza San Venceslao. Tanti ragazzi giovani, perlopiù praghesi, erano in piazza a protestare. Vi furono tanti morti quella notte. Dubcek fu arrestato e  portato a Mosca, dove rimase per sei mesi. Per venti anni è stato sotto il controllo dell STB e ha lavorato come giardiniere, lui che aveva il titolo di ingegnere e sarebbe diventato nell’89 presidente del parlamento!

Qual è stata la risposta della gente a questo intervento armato?

La gente non ha fatto niente. Fuori da Praga non si sapeva neppure che i carri armati avessero sparato, perché in tv e alla radio non dicevano nulla. Qualcosa si vedeva in Occidente: qualche coraggioso aveva registrato e inviato le riprese ai Paesi occidentali. In generale, però, la gente sembrava aver perso l’energia per vivere: le persone cominciavano a camminare come le pecore, guardando in basso. Questo atteggiamento, legato alla profonda sfiducia che ognuno provava nei confronti dell’altro, viste le macchinazioni delle polizie segrete, sono rimaste nel modo d’essere dei cechi, che si presentano ancora oggi, effettivamente, come una popolazione fredda e diffidente.

Ma non mancarono le voci fuori dal coro, come quella di Jan Palach.

I ragazzi della Facoltà di Filosofia, all’Università Karlova, erano convinti che fosse necessario mostrare alla gente che bisognava unirsi e combattere contro i russi. Portarono avanti la loro battaglia fino alla morte. Credevano che la morte sarebbe arrivata ugualmente a tutti: da veri filosofi, la consideravano una forma relativa. Quindi, per protesta hanno messo 10 nomi in una busta decidendo che i due primi estratti si sarebbero dati fuoco, pubblicamente, in piazza. Il primo a mettere in atto questo proposito fu Jan Palach, che si diede fuoco il 16 gennaio del ’69 davanti al Museo Nazionale. Il secondo fu Jan Zajic, il 25 febbraio dello stesso anno.
L’anno scorso si è tenuto il cinquantesimo anniversario dalla morte di Jan Palach e così per la prima volta si è parlato di lui. Per la prima volta dopo cinquant’anni si discuteva sul fatto che si dovesse insegnare ai ragazzi per quale motivo Jan Palach si fosse dato fuoco, perché anche Jan Zajic lo avesse emulato pur essendo giovanissimo (aveva 19 anni). Prima era come se a Praga non fosse successo nulla. Due ragazzi erano morti, ma la gente aveva troppa paura per fare qualcosa. Non si insegnava questo, non si parlava di Palach e né tanto meno di Zajic, quasi completamente sconosciuto ancora oggi.
Quando sentii il nome di Palach per la prima volta avevo 17 anni. Il muro di Berlino era caduto. Era gennaio e si stava tenendo una lunga processione da Piazza San Venceslao fino all’università Karlova e al lungo fiume della Moldava. Al telegiornale si diceva: PalachPalach… Io mi chiedevo chi fosse e mia madre mi disse che non ne era certa, che forse si trattava di un ragazzo che una volta era impazzito e si era bruciato. Io ci credevo: la mamma aveva sempre ragione. 

Esiste ancora della nostalgia nei confronti del regime comunista?

Ancora oggi i comunisti prendono 11-13% dei voti; c’è molta nostalgia. Qualcuno pensa che si potrebbe instaurare un comunismo diverso, senza l’ingerenza dei russi. Per come la vedo io, sia il comunismo che la democrazia presentano i propri pregi e i propri difetti. La democrazia è come la vita del lupo. Il lupo è libero nel bosco, corre, cammina; ma se non ha da mangiare, non è servito da nessuno; nessuno lo porta dal veterinario se è malato: deve arrangiarsi. Il comunismo è come la vita del cane. Il cane sta bene: ha il suo lettino, i padroni lo portano dal veterinario se è malato, lo curano; ma il cane non può uscire dal suo giardino senza guinzaglio, se il padrone non lo decide.

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