di Francesca Savina

Maria ama le parole composte. Ha un fidanzato, Nicola, un cane immaginario di cui si prende cura a giorni alterni e un negozio, Portagioie. Di mestiere trova il regalo perfetto per le persone, quello che i suoi clienti non saprebbero confezionare: lo compone, lo incarta e rende felice qualcuno. La sua normalità di ragazza che ha trovato una propria stabilità, dopo le velleità giovanili costruite a Londra con la sua amica Ruth, è solo fittizia. Ha un compagno perfetto, dalla precisione ineguagliabile, che si chiude così tanto nello schema della quotidianità da renderla soffocante.

La vita di Maria, però, si è frantumata già in tenera età quando ha ucciso Estate, sua sorella. Tutto, attorno a lei, si è modellato su questa perdita. Il padre a stento le rivolge la parola e la fossilizza in risposte mute e assenti, mentre la madre cerca di costruire con lei un rapporto che non sembra avere un vero futuro.

È questo lo scenario che ci offre Erica Mou, con il suo romanzo d’esordio Nel mare c’è la sete. Un racconto immerso in un’abitudine che cerca di essere stroncata. Maria sembra destinata a portare dolore a chiunque, a partire dalla sorella, fino alla sua relazione, che dietro a un velo di perfezione, nasconde rughe e incomprensioni. La sua è una corsa alla ricerca della libertà, che si fa strada nella contrapposizione ricorrente tra una forma che inizia a stare stretta e una realtà apparentemente irraggiungibile. In questo si dipana l’incapacità della protagonista di essere se stessa: lo dimostrano i suoi flussi di coscienza, in cui si rivelano tutte le considerazioni che non riesce a comunicare agli altri. Ogni esperienza, anche la più banale, la porta a riflettere sulla sua posizione stazionaria in un’enorme stanza, che è la vita, in cui le pareti si avvicinano sempre di più, fino a farla soffocare.

I delitti che ha compiuto Maria non sono solo apparenti. Sembra che lei stia lentamente logorando se stessa in una realtà che non le appartiene, in cui non si sente a suo agio. È una sognatrice in un scatola stretta che non le permette di respirare, con addosso un grosso cubo di marmo che fa fatica a sgretolarsi.

Quello di Maria può sembrare un personaggio disilluso, che si arrampica sui suoi pensieri estrapolandone sempre considerazioni negative, che non lascia spazio ai sogni e vive nel disincanto. In realtà non è così, perché questa sterilità che non le appartiene nasconde tutto il suo senso di ribellione: Maria vuole uscire dal suo schema per ricercare la felicità che le spetta e che non sente più sua.

Dal punto di vista della narrazione, quello che viene presentato è un racconto in cui ogni frase sembra frutto di un attento ragionamento che non lascia spazio alla banalità e non si presenta mai scontato. È ricco di riferimenti e analogie a elementi inusuali e di rivelazioni atipiche. La scrittrice introduce spesso il nuovo capitolo con un colpo di scena, come una freccia scoccata che, però, apre ad un discorso più ampio, lentamente dispiegato nel corso della narrazione. Non mancano poi specifici e ricorrenti riferimenti ai brani di Erica Mou che, prima di essere scrittrice è una cantautrice. Primo tra tutti, il titolo che richiama una frase della sua canzone Monti di ghiaccio, contenuta nell’album Contro le onde.

Nel complesso, Nel mare c’è la sete è sicuramente una storia che trasmette un insegnamento ben più grande di ciò che sembra volerci dire: ognuno può prendere in mano la propria vita e farla propria, decidendo per se stesso e uscendo dagli schemi per raggiungere la propria felicità.

Erica Mou, Nel mare c’è la sete, Fandango Libri, 2020, 221 pagine.

Valutazione: 5/5