di Michele Romano

A Roma si venerava una dea, nota come Grande Madre, sulla cui identità i pareri non sono, però, unanimi: potrebbe trattarsi di Giunone Cartaginese, Cibele, o Fauta, la moglie di Fauno. Conosciuta come Damia dai Greci, i Romani la denominarono “Bona Dea” e le dedicarono importanti celebrazioni rituali. 

Correva l’anno 62 a.C e, a casa di Giulio Cesare, che ricopriva la carica di pontefice massimo, si svolgevano questi riti, ai quali erano ammessi a partecipare solo le donne e i pontefici. La moglie di Cesare, Pompea Silla, lo tradiva col patrizio Publio Clodio Pulcro, che quella sera stessa si intrufolò vestito da flautista; venne riconosciuto e fatto entrare da un’ancella chiamata Abra. Ma poi altre ancelle lo scoprirono e fu cacciato di casa da Aurelia Cotta, madre di Cesare. Nei giorni seguenti, ovviamente, la notizia di questo scandalo fece il giro di tutta Roma, indignando la popolazione.

Circa un mese dopo, l’episodio venne segnalato al senato da Quinto Cornificio e si decise che Clodio sarebbe dovuto essere processato con l’accusa di incestus (reato sessuale ai danni della religione e della natura). Mentre gli alleati del futuro questore, ricevuta la notizia, creavano ampi disordini nell’Urbe, il senato dispose una legge per impedire l’assegnazione di questa carica.

Ad aprile iniziò il processo, vi furono numerose testimonianze a sfavore di Clodio, come quelle della madre e sorella di Cesare. Quest’ultimo, però, preferì non proferire parola per poter restare in buoni rapporti con un individuo che aveva l’appoggio del popolo; quanto alla moglie Pompea, venne considerata complice del misfatto e ripudiata. Viste le deposizioni contrarie, la difesa optò per il ricorso a false testimonianze, che avrebbero visto Clodio trovarsi ben lontano da Roma nel momento in cui si svolsero i riti della Bona Dea. 

A capovolgere completamente la situazione, però, intervenne Marco Tullio Cicerone, il quale smentì l’odiato avversario affermando che aveva incontrato l’imputato prima di andare alle celebrazioni. I sostenitori di Clodio, ancora una volta, crearono un disordine tanto grande che si fu costretti a rimandare l’udienza. Marco Licinio Crasso corruppe i giudici, e l’imputato venne assolto. 

Quanto a Cicerone, la sua dichiarazione gli costò cara, perché pochi anni dopo subì una vendetta esemplare da parte di Clodio: questi, infatti, con la Lex de capite civis Romani, andò a colpire tutti coloro che non avevano applicato l’appelatio ad populum (la facoltà di un condannato di rivolgersi al popolo per abbassare la propria pena), tra cui lo stesso Cicerone, che tempo prima aveva condannato a morte i seguaci di Catilina senza concedere loro il suddetto diritto.