È stato il periodo delle rivoluzioni, della lotte di classe, proletaria, contro il sistema.

Momento di rottura per un’intera generazione ormai insofferente verso un sistema di ideologie e convenzioni ritenute oppressive, in vista di un rinnovamento culturale, politico e sociale. Gli anni ’60 sono stati gli anni dei “giovani”, intesi per la prima volta come gruppo sociale dotato di valori e identità propri, protagonisti di una contestazione e lotta sociale senza precedenti. Una ribellione partita dal duro scontro generazionale tra genitori e figli all’interno delle famiglie, e proseguito tra professori e allievi nelle università, fino al rifiuto di qualsiasi persona o istituzione rappresentasse il quel sistema, fino all’esplosione della protesta giovanile nel 1968. I movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam, l’occupazione della Sorbona e del Quartiere Latino durante il maggio francese e la Primavera di Praga sono solo alcuni degli avvenimenti che hanno segnato questo decennio, coinvolgendo giovani di ogni parte del mondo. Espressione dello spirito di questi anni è sicuramente la musica. Dalle canzoni di protesta di Bob Dylan alla nascita di band come i Beatles, i Rolling Stones, i Pink Floyd, passando per Jimi Hendrix e Janis Joplin… Si passa dai testi costruiti su cliché idilliaci ad artisti che si fanno portavoce della rabbia e delle ribellioni giovanili, artisti che non solo sono simbolo di un decennio, ma che segneranno la storia della musica per sempre. Ed è proprio la musica a dare vita ad uno degli eventi più emblematici degli anni Sessanta, il festival di Woodstock del 1969. Buona parte della realtà e della società in cui oggi viviamo è frutto delle lotte di questo decennio, eppure sono pochi i ragazzi della nostra età che conoscano davvero quello che è accaduto. Certo, alcune tracce delle conquiste dei giovani di quella generazione sono ancora presenti, ad esempio, nelle assemblee scolastiche e nelle manifestazioni studentesche, ma appaiono come copie sbiadite, svuotate del loro vero valore originario. Allo spirito di autoeducazione, di critica nei confronti di valori imposti e alla volontà di distinguersi sembrano oggi corrispondere uno spirito sempre più pigro, latente e poco critico. Alla luce di queste riflessioni, viene spontaneo chiedersi: qual è l’eredità che gli anni Sessanta ci hanno lasciato e quanto siamo portatori di essa? Si limita a un pugno di belle canzoni e a qualche slogan d’effetto o, invece, c’è altro che andrebbe riscoperto e che potrebbe rivelarsi più attuale del previsto?