Le società di tutti i tempi hanno sempre distinto il genere umano nei due sessi: il cosiddetto sesso debole e quello forte.

Questa distinzione ha segnato il destino delle donne, relegate da sempre a mansioni meno pesanti fisicamente, ma anche meno prestigiose intellettualmente, causando una emarginazione sociale ed una esclusione in campo lavorativo. Il divario ha toccato tutti i campi, dalla politica alla letteratura, dalla filosofia alle scienze, dalla musica all’arte, e quindi allo sport, espressione antica della piena condizione fisica e psichica dell’essere umano. Lo sport ha permesso all’uomo di mettersi a confronto con gli altri, ma soprattutto mettere alla prova fisicamente e mentalmente sé stesso. Una sbagliata visione della realtà ha sempre portato a vedere gli uomini come competitivi, forti e attivi, quindi sportivi, e le donne deboli, passive e remissive, quindi sedentarie. Dobbiamo aspettare l’età moderna per osservare una maggiore considerazione del gentil sesso nonostante profonde discriminazioni e disuguaglianze siano presenti ancora oggi. Basti pensare che l’organizzatore delle prime Olimpiadi moderne avvenute nel 1900 De Coubertin era contrario  alla partecipazione femminile. Si riuscì comunque ad ammettere una piccola rappresentanza femminile, anche se non ufficiale, nel tennis, golf, vela e gare di tiro. Nell’ultimo secolo lo sport femminile ha fatto passi da gigante, non ottenendo tuttavia la stessa considerazione di quello maschile. Ciò è dovuto ad una mentalità ormai ovvia e scontata intrinseca nella nostra società sia maschile, ma anche femminile. Si pensa che lo sport riduca la femminilità, trasformando il fisico costringendolo ad atteggiamenti poco fini. Ma cosa si intende per femminilità? Sicuramente una sportiva non può permettersi di frequentare ogni giorno un salone di bellezza o la maggior parte delle atlete non hanno curve aggraziate, gambe e braccia esili e bacini invisibili. Ma non è questo che rende una donna femminile. Intraprendenza, determinazione, fatica, sopportazione e costanza dovrebbero essere le caratteristiche e le prerogative che permettono ad una donna di realizzarsi ed essere se stessa. Non sarà forse che la società maschilista di oggi ha paura di veder andare in frantumi una infondata convinzione di superiorità?Nonostante le potenzialità e il galoppante sviluppo dello sport femminile, le  strutture scarse e le inadeguatezze organizzative rappresentano un grosso ostacolo con cui fare i conti. Campionesse, simbolo dello sport italiano, come Federica Pellegrini, non sono ritenute legalmente professioniste, a causa di una vecchia norma del 1981. Solo quattro sport sono stati regolamentati, mentre tutti gli altri aspettano direttive che non arriveranno mai. Ciò destina le atlete a vivere in un limbo giuridico ed economico. Ad esclusione delle poche fortunate che hanno conquistato un posto in amministrazioni statali, o nelle varie forze l’ordine, le altre sono obbligate ad avere un lavoro e concentrare, senza iperboli, due vite in una sola. È quindi inevitabile che la percentuale di atlete professioniste che abbandonano lo sport nel pieno sviluppo della propria carriera agonistica sia nettamente superiore a quella maschile. Si aggiunge, inoltre, che lo sport femminile, non rappresentando un lavoro a tutti gli effetti, non retribuisce in caso di maternità o malattia, ostacolando ulteriormente il percorso sportivo. Lo sport è un microcosmo che rispecchia le problematiche e i gap della nostra società e analizzarlo significa esaminare anche gli aspetti più critici dell’essere umano e del suo rapporto con il sociale.