di Clementina Salamina

 “Ricordo ancora il violetto di cui si dipingeva il parco in inverno. Ciclamini selvatici talmente fitti da creare un tappeto. Per me che venivo da una grande città era un paesaggio nuovo, che riusciva quasi a farmi dimenticare i boati dei bombardamenti che avevano colpito il porto di Napoli e che ci avevano obbligati a rifugiarci in una villa a Melfi, messa a disposizione da un cugino di mio padre.

Quel colore così intenso e al tempo stesso così delicato fungeva da sfondo ai lunghi pomeriggi passati a giocare scoprendo ogni angolo e anfratto di quel parco, che cresceva rigoglioso senza alcuna cura, districandosi tra i muretti come io cercavo di liberarmi da quegli scomodi cappottini ricamati e da quel fiocco sulla testa, che puntualmente dopo una corsa sfrenata pendeva di lato.

Ebbene sì, anche alla giovane età di sette anni avevo un caratterino… Spesso i più piccoli si lamentavano con mia madre: “Angela vuole sempre decidere tutto!”. Ciò nonostante, alla fine quando giocavamo tutti insieme facevano come volevo io.
Provavamo quasi l’illusione di essere lontani dalla guerra che si svolgeva poco distante, sembrava non toccarci, se non nella notte, quando l’orecchio era teso nel terrore di risentire quei boati, il cui ricordo non ci aveva abbandonati scappando dalla nostra città.

Come a voler dimostrare la lontananza della guerra e quasi per esorcizzarla, venivano organizzate grandi feste, nonostante la scarsità di cibo. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui fu tenuta una festa per un battesimo, arrivarono anche dalle ville vicine signori e signore in diverse carrozze.

A cavallo dello stesso animale che aveva trainato una di quelle carrozze, nel pomeriggio tornò galoppando un ragazzo, percorrendo i tratturi urlando a squarciagola una frase che credo non dimenticherò mai, nonostante sia passato così tanto tempo.

Hanno firmato l’armistizio”.

La scena che si dipinse davanti ai miei ingenui occhi mi è rimasta impressa per tutta la vita. Fra l’entusiasmo e il sollievo generale, tutti si alzarono in piedi, gridando al miracolo.

In questa atmosfera gioiosa e movimentata, solo un uomo era rimasto immobile, seduto al proprio posto con in viso un’espressione che non gli avevo mai visto assumere. Il viso scuro e preoccupato di mio padre stonava con l’entusiasmo espresso dai volti illuminati dalla luce del primo pomeriggio, come una piccola macchia di vino rosso su una candida tovaglia. Pronunciò una frase della quale inizialmente non capii il significato. Solo in seguito, compresi che mio padre, con l’esperienza di ufficiale durante la Prima Guerra Mondiale, aveva ragione.

La guerra non è finita, comincia ora. Abbiamo già i nemici in casa.”

Com’era stata vera la sua paura. Dopo qualche giorno cominciarono a passare lungo i tratturi vicino alla villa resti dell’esercito italiano in rotta, soldati resi irriconoscibili dagli orrori della guerra. Contemporaneamente l’esercito tedesco iniziò ad arretrare, incalzato dagli Americani, con l’intenzione però di distruggere e saccheggiare il più possibile, compiendo razzie in masserie e ville, portando via il bestiame. Erano uomini affamati e stravolti dalla guerra, intenzionati ad indebolire il più possibile la Nazione i cui governanti erano considerati dei traditori.

Un giorno bussarono alla porta dei soldati tedeschi. Erano alla ricerca di militari dell’esercito italiano e volevano informazioni.
L’ufficiale tedesco si sedette davanti a mio padre sul lungo tavolo del tinello e cominciò a parlargli, in un italiano scolastico, facendo domande su eventuali contatti con Americani e ciò che restava dell’esercito italiano.

La tensione dopo diverse domande, alle quali mio padre aveva risposto attentamente, negando ogni rapporto con gli Americani, si allentò.
Ciò che si dipinse davanti ai nostri occhi fu una scena di profondo rispetto e senso dell’onore. Entrambi riconoscevano il ruolo dell’altro, seppur trovandosi su fronti opposti.

In questa strana atmosfera, che da interrogatorio si era trasformata in rispettosa conversazione, mio padre offrì delle sigarette all’ufficiale, come gesto di gentilezza.
Il logo Americano svettava sul pacchetto: impossibile non notarlo o ignorarlo.

La situazione si ribaltò. Non ricordo con esattezza ciò che successe, le immagini sono troppo confuse ed io ero troppo spaventata dalle frasi in quella lingua sconosciuta che l’ufficiale stava urlando ai suoi compagni.

Ci fecero disporre tra grida, spintoni e calci tutti davanti al muro, dal primo all’ultimo, uomini, donne e bambini. Capimmo che aveva dato ordine di fucilarci tutti immediatamente.
Pensai che sarei morta così, uccisa a sangue freddo, sul pavimento di quella villa che era stata il nostro rifugio e ora stava per diventare la nostra tomba.
Ci sembrava di sentire il gelo del metallo già nella schiena.
I soldati tedeschi si misero in posizione.

In quel momento la sentinella lasciata all’entrata della villa spalancò di colpo la porta, urlando parole dal significato ignoto. Immediatamente i soldati uscirono correndo dalla stanza, guidati dal loro ufficiale. Si erano lanciati all’inseguimento di alcuni soldti italiani, avvistati lungo un tratturo poco lontano.
Non tornarono più indietro.

Non si seppe nulla dei soldati italiani, non furono trovati i loro corpi, non se ne ebbe nessuna notizia. Devo la vita ad ognuno di quei militari italiani, che, trovandosi inconsapevolmente, per caso, al momento giusto lungo il giusto tratturo, ci salvarono.

Ebbi la possibilità di sopravvivere alla guerra, essere tra le prime ragazze ad iscrivermi in un Liceo Scientifico, diventare professoressa, sposarmi, avere due figlie e due nipoti. Ma questo te lo racconterò un’altra volta.

Eppure, nonostante siano passati così tanti anni, quando al telegiornale le bombe popolano le notizie sui conflitti in varie parti del mondo, io e tuo nonno ancora sentiamo il brivido provato vivendo la guerra.

Talvolta, ancora adesso, mi sorprendo a guardare il vaso di ciclamini sul tavolo del soggiorno, ricordando come quel colore violetto riuscisse a farmi dimenticare i boati di Napoli, immersa in un silenzio interrotto solo dal grido “Libera tutti” durante un momento di spensierato gioco.


Ringraziamenti: Angela Letizia e Pasquale Mangino