di Gabriele Guerrieri

Può una fotografia trasformarsi in un’arma? In una realtà dominata dalle immagini come la nostra, il rischio è paurosamente alto. Come in preda a sostanze stupefacenti scattiamo, postiamo e condividiamo immagini che ci ritraggono e ritraggono le persone che ci stanno attorno in ogni momento della nostra e della loro vita perché abbiamo la necessità di mostrarci felici, sicuri di noi, al passo con i tempi. Perché lo fanno tutti, no? Instagram, Facebook, Whatsapp sono stracolmi fotografie di chiunque, e allora a noi, proseliti del dispotismo delle immagini, non resta che lasciare un mi piace, condividere, postare. Ma soprattutto da cittadini modello del villaggio digitale, che fieramente esercitiamo la nostra libertà di pensiero, commentiamo ogni post, ogni scatto. Perché la nostra opinione conta e dobbiamo farci sentire. “Quanto sei bona”, “Ma quanto cazzo sei magro? Anoressico”, “Che balenottera spiaggiata” e ancora e ancora in una sinfonia di insulti e commenti indesiderati, apoteosi dell’orrore che noi, schiavi delle immagini, siamo in grado di commettere con la medesima leggerezza con cui spiatelliamo la nostra vita sulle homepage di milioni di utenti. 

Ma il passo tra la libertà di pensiero e il reato è breve. E’ del 2017 la legge italiana contro il bullismo che si consuma tra le pagine del web e le homepage dei social network, a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo. Ed in queste ultime settimane il cyberbullismo è tornato ad infestare le esistenze di decine di innocenti vittime amplificato nel fenomeno del cyber shaming, umiliazione pubblica che si consuma online. Un concetto che riprende delle caratteristiche del revenge porn, ovvero la condivisione su siti e chat online di immagini sessualmente esplicite di soggetti, spesso ignari, o ricattati attraverso questi materiali, e del body shaming, una forma di bullismo che colpisce l’aspetto fisico delle vittime. In particolare si è parlato di cyber shaming in riferimento al circolo illecito di immagini di ragazze, anche minorenni (fino a 12-13 anni), sulle chat del noto social media di messaggistica Telegram. Decine di ragazzine si sono ritrovate vittima del gioco perverso di maniaci e pedofili che, protetti dall’anonimato del web, commentano questi contenuti con insulti di ogni tipo e minacce di stupro e di morte. Una situazione di violenza inaudita che trova nell’emergenza che stiamo vivendo un terreno più che fertile: il lockdown ci ha costretto (e permesso) a trasferirci stabilmente online, andando a ripopolare gli anfratti più aberranti della rete. Gli inquirenti, anche e soprattutto grazie alla denuncia di alcune delle vittime e all’azione di diffusione promossa da diverse associazioni studentesche, hanno aperto un’indagine, perché questi canali vengano prontamente chiusi e provvedimenti vengano presi contro le bestie del web. In attesa di una risposta decisa e risolutiva da parte delle istituzioni.

Un dato allarmante riguardo a questa terribile vicenda è relativo alla diffusa disinformazione in merito all’argomento tanto tra i ragazzi, quanto, soprattutto, tra gli adulti. Non sono in tanti, infatti, ad essere a conoscenza dei crimini che si stanno compiendo attraverso le chat di Telegram; sentore, questo, di una generale indifferenza nei confronti di tali tematiche, anche da parte delle più importanti testate giornalistiche del nostro Paese. Perché di cyber shaming non ne parla nessuno. Spesso, si è ignari dell’esistenza di un simile fenomeno e non si conosce neppure il significato di tale termine. Per questa ragione sarebbe necessaria una capillare opera di sensibilizzazione mirata a stracciare il velo dell’ignoranza che oscura la vista di milioni di cittadini digitali, inermi ed inerti di fronte a queste problematiche. Un’opera che parta dalle istituzioni e si diffonda attraverso le televisioni, le radio, i giornali e gli stessi mezzi di comunicazione che diventano l’ambientazione ideali per aberranti episodi di molestie digitali. Perché chiunque si affacci su internet, lo faccia nella consapevolezza delle insidie che anche le più colorate pagine web possono nascondere.

Ma, soprattutto, non si parla di cyber shaming perché esso, così come il revenge porn o il body shaming, appartiene a quella cerchia di argomenti tabù che, solo ad essere nominati, scatenano una certa reticenza. Come se parlandone diventassero reali, si avvicinassero a noi, annullando quella distanza di sicurezza che ce li fanno apparire così alieni, così tanto distanti. Come se noi, proprio noi, non potessimo mai cadere nella rete perversa del web e discutendone, questa si materializzasse di fronte a noi.
Perché, tanto, quella sgualdrina le cui foto circolano su Telegram se l’è cercata. Chi le ha detto di scattarsi quelle foto e pubblicarle su Instagram

Ammesso che quelle immagini siano state scattate con il consenso del soggetto, premessa non così ovvia, chi ha avvertito l’eventuale ragazzo o ragazza del rischio che si corre a pubblicare determinati contenuti sui social network?
La problematica va, dunque, indagata alla radice. Perché nonostante non si possa evitare di puntare il dito contro una buona dose di avventatezza e spregiudicatezza di parte della popolazione giovanile, è impossibile non imputare colpa alcuna agli adulti che di questi giovani dovrebbero essere educatori. Questa vicenda, punta di dell’iceberg di un circo di violenza e molestie che affligge tanto la realtà digitale quanto quella analogica, è solo una controprova dell’esistenza di un muro apparentemente invalicabile che divide i giovani dagli adulti. Una parete di incomunicabilità che ha effetti deleteri per le menti fragili e traumatizzate di tante di quelle ragazzine che, scopertesi alla mercé delle belve di Telegram, hanno espresso la volontà di commettere il suicidio. Cosa fare, dunque? Frantumare questa campana di vetro immaginaria e tornare a dialogare, a confrontarsi, infrangendo tutti i tabù di una società, la nostra, molto più ipocritamente pudica di quanto si possa immaginare. Che nelle scuole si proponga un’educazione digitale che, oltre a ingozzare gli studenti di sterile nozionismo, li renda consapevoli dei rischi e delle infinite potenzialità, tanto positive quanto negative, del web e dei social network. Che nelle famiglie si insegni il rispetto e non si abbia reticenza a discutere di argomenti quali le molestie, la violenza e persino l’educazione sessuale (anche attraverso l’intervento di esperti). Perché tacere determinate brutture non vuol dire proteggere, ma anzi consegnare in balia di un mondo, purtroppo, brulicante di pericoli, giovani adulti indifesi e incapaci di confrontarsi con queste problematiche. Con il rischio che ne rimangano irrimediabilmente schiacciati.

Gli studenti leccesi, con l’obiettivo di sensibilizzare i propri compagni e l’opinione pubblica sulle tematiche del cyber shaming, hanno realizzato dei video, spesso usando modelli già presenti in pubblicità, appelli e altre campagne di sensibilizzazione sulla violenza contro le donne.


NdR. – Sul gravissimo fenomeno vi rimandiamo al servizio mandato in onda su Telerama e all’intervista ad una delle ragazze-vittima presente su pugliain.net (all’interno anche il video degli studenti del Liceo Psico-Pedagogico Siciliani di Lecce).