di Lorenzo Bonanno – Foto di Andrea Bisconti –

Dimenticanza è sciagura, mentre memoria è riscatto”. In questo modo Annelliese Knoop-Graf, sorella di Willi Graf, uno dei membri principali del gruppo di resistenza al regime nazista “Rosa Bianca”, decide di ricordare la deportazione ed il massacro di milioni di ebrei (e non solo) avvenuta ormai ottanta anni fa. 

E noi, studenti del liceo scientifico Cosimo De Giorgi, abbiamo deciso di non dimenticare toccando con mano ciò che realmente è accaduto in uno dei periodi storici più bui dell’umanità. Dal 16 al 23 gennaio ci siamo recati a Cracovia, dove giorno dopo giorno abbiamo scavato nel passato e riscoperto eventi storici appartenenti al secondo conflitto mondiale attraverso la visita della città, di musei e dei campi di concentramento.

Tutto ciò è stato possibile grazie all’associazione “Treno della Memoria”, nata nel 2004, promotrice di una politica che si basa sulla sensibilizzazione delle giovani generazioni e convinta che solo una consapevole conoscenza di ciò che è stato possa guidarle a non ripetere gli errori del passato. Il suo fondatore Paolo Paticchio, di origini pugliesi, a soli diciotto anni ha capito l’importanza del ri-percorrere i sentieri dei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, del campo di lavoro di Plaszow, della fabbrica di Oskar Schindler, per far sì che mediante i partecipanti del viaggio intere comunità potessero diventare testimoni attivi delle brutalità compiute durante la guerra.

Ogni singolo dettaglio della nostra esperienza è stato indimenticabile. La prima tappa è stata Cracovia, tipica città dell’Europa orientale, caratterizzata da un centro storico diventato dal 1978 patrimonio UNESCO. La città vecchia è stata davvero interessante da visitare con le sue tante storie da raccontare, ci ha affascinato in ogni suo tratto nel bene e nel male, riuscendo a farci provare emozioni come la meraviglia, ma al contempo anche malinconia e tristezza. Ogni angolo aveva qualcosa da offrire, valori da insegnare e lezioni da non dimenticare. Osservare in prima persona luoghi come ciò che rimane del ghetto ha contrubuito a farci riflettere su come tante cose, nonostante siano sotto il nostro naso, passino inosservate senza che nessun individuo dimostri il minimo interesse. La storia si nasconde dove meno ce lo si aspetta, di conseguenza non bisognerebbe trascurare alcun dettaglio e questo viaggio ce lo ha insegnato.

I momenti più toccanti ed importanti, tuttavia, sono stati quelli vissuti durante le visite ai resti del campo di lavoro forzato di Plaszow ed al campo di concentramento Auschwitz-Birkenau. Descrivere le sensazioni provate in quegli istanti mediante le parole è estremamente complesso e riduttivo. Tutto ciò che abbiamo visto non si può definire umano. 

Non avevamo la minima idea di cosa si potesse celare dietro quel freddo cancello imbiancato dalla candida neve, che provava, per quanto possibile, ad allietare il nostro ingresso. “Il lavoro rende liberi”, recitava. 

Cumuli di scarpe, vestiti, tonnellate di ciocche di capelli, effetti personali, oggetti appartenuti a persone che, ormai, non lo erano più. In questi luoghi sono state private di ogni singolo diritto, addirittura del nome, e sono diventate semplicemente forza lavoro per il regime nazista. Campi costruiti da schiavi ebrei per schiavi ebrei; ideati dalla morte ed aventi come fine la morte. Edifici, stabili, che, alla sola visione, lasciano macigni nei cuori dei visitatori. Ritrovarsi di colpo davanti alle tristemente famose camere a gas, mettere piede nelle stanze dove il cuore di migliaia di persone ha battuto per l’ultima volta, dove si lottava per qualche secondo in più di vita è stato straziante. E poi il filo spinato, presente dappertutto, piazzato con maniacale precisione e strategia, in modo tale che i prigionieri potessero ben vedere ciò che era stato loro negato: la libertà. Nessuno riusciva a proferire parola. I volti spenti di tutti noi ragazzi mi hanno fatto capire quanto tutto ciò fosse disumano, ineccepibile. Questi luoghi avevano in comune una cosa, silenzio. Un silenzio che nelle orecchie urlava di non dimenticare ciò che in quel momento i nostri occhi stavano osservando, perché tenere viva la memoria significa tenere accesa la fiamma della speranza. Speranza che queste atrocità non si verifichino più, che un giorno si riesca a comprendere davvero il significato della parola vita, poiché essa è il dono più prezioso che ci è stato donato e dovremmo custodirlo con cura ed averne rispetto tutti.

Quello che abbiamo vissuto è stato un viaggio che ci ha fatto crescere come persone e come individui facenti parte di una società che lotta per un mondo migliore, dove i valori che davvero contano sono posti al centro della propria esistenza. Un mondo in cui le persone non si odiano, si amano.