di Cristina Milanese

In occasione della Giornata della Memoria , il nostro giornale riserva uno spazio ad alcuni lavori sul tema dell’Olocausto . 
Le riflessioni sono scaturite dalla lettura del breve racconto “L’amico ritrovato” di F.Uhlman, pubblicato nel 1971, ma ambientato nella Germania nazista del 1933.

I protagonisti della storia sono due sedicenni, Hans e Konradin.  Il primo è figlio di un medico ebreo, il secondo è l’illustre discendente della nobile stirpe dei  Von  Hohenfels.
I due ragazzi sono amici inseparabili, nonostante il diverso orientamento politico, religioso e culturale delle loro famiglie.
Hans, per evitare la deportazione, si trasferisce in America e , dopo trent’anni, verrà a sapere che Konradin è stato giustiziato per aver partecipato ad un complotto contro Hitler.

“Da allora ho fatto il possibile per evitare qualsiasi rapporto con i tedeschi e non ho aperto più neanche un libro scritto in tedesco. Nemmeno Holderlin. Ho cercato di dimenticare. Com’era inevitabile, alcuni tedeschi hanno incrociato la mia strada, brave persone che erano finite in prigione per essersi opposte a Hitler. Tuttavia, prima di stringere loro la mano, mi sono sempre informato sul loro passato. Bisogna fare attenzione prima di concedere la propria fiducia a un tedesco. Come si fa a essere certi che l’uomo con cui si sta parlando non abbia immerso le mani nel sangue dei vostri amici o dei vostri parenti?”

L’amico ritrovato; F. Uhlman

Dimenticare. Dimenticare una lingua, un passato, quella che era la propria identità. E’ ciò che prova a fare Hans, il protagonista della novella “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman,  una volta trasferitosi in America, per iniziare una nuova vita, lontano dalla sua terra natale, la Germania. Hans è ormai adulto quando racconta la sua storia: è un ebreo che ha vissuto gli orrori del Terzo Reich e che è fuggito per sottrarsi al peggio. Le sue ferite bruciano ancora come se “sfregate con il sale” ogni qualvolta che il passato bussa di nuovo alla sua vita: la delusione di un’amicizia così forte con Konradin, rampollo di una famiglia nobile, spezzata dall’odio razziale dei suoi genitori filonazisti. Colpisce la frase “Come si fa a essere certi che l’uomo con cui si sta parlando non abbia immerso le mani nel sangue dei vostri amici o dei vostri parenti?”. Una domanda forte, che il protagonista rivolge al lettore senza mezzi termini: schietta, diretta. Essa è lo specchio di un’anima segnata indelebilmente da un dolore ancora vivo, un trauma che non permette ad Hans di stringere la mano ad un tedesco tranquillamente. Il macigno che egli si porta dietro, poi, lo spinge a dare una sorta di monito, che, ad una prima lettura, può risultare “destabilizzante”:  essere prudenti nel concedere la propria fiducia ad un tedesco. Le emozioni e riflessioni del protagonista sono ben veicolate attraverso un linguaggio semplice, corredato di esempi concreti. La struttura sintattica dei periodi  è costituita per lo più da proposizioni subordinate: frequenti sono le interrogative dirette, che conferiscono un ritmo incalzante al passo e attraverso le quali l’autore riesce a penetrare l’animo del lettore.

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