di Francesco Marsini

Sono le 9:40 del mattino del 26 gennaio 2020 quando a Calabasas, vicino a Los Angeles, un elicottero si schianta sul suolo di una collina da 609 metri di altitudine. Al suo interno ci sono Kobe Bryant e la figlia Gianna, che muoiono sul colpo insieme agli altri sette passeggeri. 

Da quel maledetto giorno sono passati già quattro anni, ed il ricordo della leggenda dei Los Angeles Lakers è fortemente impresso non solo nel mondo del basket e nei suoi fan, ma anche negli sportivi di tutto il mondo che si ispirano a lui e alla sua Mamba Mentality. Sì, perché il Black Mamba non è stato solo un fenomenale giocatore di basket, ma anche un esempio di professionalità, passione ed ossessione per il suo sport. 

“Try to be the best version of yourself”: questo il suo mantra che sintetizza la Mamba Mentality. Per arrivare ad essere il migliore nel fare ciò che si ama bisogna sempre dare più del massimo che si riesce, oltrepassando limiti che apparentemente ci sembrano impossibili da superare. E Kobe lo sapeva bene: ogni giorno si alzava alle 4 del mattino per iniziare ad allenarsi.

La sua ossessione e amore per il gioco del basket lo spingeva ad essere ultra competitivo e, per molte persone, antipatico, perché pretendeva lo stesso dai suoi compagni, che non sempre la pensavano come lui. Ma al Mamba non importava, perché un vincente come lui, che nella sua carriera si è aggiudicato cinque titoli NBA, un MVP, due Finals MVP e due medaglie olimpiche con gli Stati Uniti, pensava solo ad una cosa: mettere altri anelli al dito.

Ma dietro all’eccellente sportivo c’era anche un grande uomo: si schierò a favore degli afro-americani che si battevano per i loro diritti e credeva fortemente nel potere di inclusione del basket tra i più piccoli, partecipando molto spesso a tornei ed eventi appositi per i bambini. 

E poi c’era il legame con la nostra Italia. Il piccolo Bryant è cresciuto in diverse città italiane poiché il padre, anch’egli giocatore di basket, ha legato gran parte della sua carriera al nostro Paese. Arrivato a sei anni a Rieti, passa per Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia prima di ritornare in America, dove avrebbe frequentato la Lower Merion High School. Come da lui stesso ammesso, in Italia Kobe apprese i fondamentali della pallacanestro, che gli permisero poi di imparare agilmente skills più complesse. Oltre a questo, con l’Italia era sbocciato un forte sentimento di amore: qui strinse le sue prime amicizie, diventò tifoso del grande Milan di Sacchi e si innamorò del gioco della pallacanestro. “L’Italia è la mia seconda casa”, dichiarò emozionato più volte. 

Alcune persone, così come alcuni atleti, passano senza lasciare un segno particolarmente distintivo o significativo. Lui invece no: ci ha lasciato in eredità la Mamba Mentality e, soprattutto, l’idea di lottare con amore ed ossessione per i propri sogni. Purtroppo ci ha abbandonato troppo presto. 

Ciao Kobe.

Per sempre, Black Mamba.