di Clementina Salamina

Abbiamo ancora bisogno di eroi? Necessitiamo ancora di qualcuno dotato di un coraggio incommensurabile e magari di poteri soprannaturali? Ci aspettiamo ancora che un valoroso arrivi per salvarci dalle nostre disavventure invece di sforzarci per superare da soli le avversità?

Fin dagli albori della civiltà, l’essere umano ha proiettato i propri desideri ed aspirazioni in una figura esterna, in grado forse di porre fine alle sofferenze del suo popolo, della sua famiglia o – in ultima analisi – di sé stesso.

I primi eroi che appaiono davanti agli occhi di un neonato sono proprio i suoi genitori, gli individui dai quali il bambino dipenderà nell’iniziale fase della sua vita e nei quali troverà spesso rifugio e conforto dalle proprie debolezze.
Andando avanti nel tempo, il ragazzo si allontanerà dalle figure genitoriali ricercando in altro un porto sicuro nel quale attraccare speranzoso nei momenti di tempesta.

L’uomo, nel quale infine si trasforma il ragazzo crescendo, tendeva, in epoche ormai passate, a mantenere salda l’ammirazione nei confronti dell’ipotetico eroe: ascoltare i miti e i poemi epici era una scappatoia dalla monotona vita quotidiana che conduceva verso mondi e tempi lontani, popolati da uomini audaci e orridi mostri.

Lo stesso Omero nei suoi poemi canta le gesta di eroi dalle qualità eterogenee, dal possente Achille all’astuto Ulisse, dando rilievo a personaggi che avrebbero affollato la letteratura ancora per secoli: un mito che affascina il pubblico di epoche così diverse tra loro, accomunato solo dal bisogno diffuso di immaginare un prode in grado di affrontare ogni sfida gli si ponga davanti.

Balzando avanti di circa diciotto secoli, nel Duecento i Cavalieri della Tavola Rotonda fanno il loro trionfale ingresso nel panorama letterario. Introdotti dal Ciclo Bretone, nel quale è presentato il percorso di formazione del perfetto cavaliere, essi sono coraggiosi e fieri, ma non ciechi all’amore e alla generosità.

Caratteristiche ancora presenti ne L’Orlando Furioso dell’Ariosto, ma accompagnate da difetti che conferiscono umanità al protagonista e lo avvicinano al lettore. Già a partire dal Sedicesimo Secolo, quindi, il divario tra uomo comune e eroe inizia a diminuire, mostrando come la follia che può impossessarsi di un qualsiasi essere umano possa corrompere anche l’animo di un cavaliere.

Un’ulteriore fase della metamorfosi dei valori classicamente associati alla figura dell’eroe si esplica nel Robinson Crusoe di Defoe, borghese, individualista e pragmatico, in grado di plasmare la realtà in base alle sue necessità.

Il mito dell’autorealizzazione già preannunciato da quest’ultimo personaggio raggiunge il suo culmine nel superuomo dannunziano. In passato l’autore donava speranza al lettore attraverso la narrazione delle gesta dei protagonisti dei suoi racconti; ma nel nuovo approccio letterario è la vita stessa del “vate” a diventare un’opera d’arte, irraggiungibile ai più, tramite una continua tensione verso l’assolutizzazione dei sensi e la recisione di ogni vincolo morale che mantenga ancorati alla società. 

Nettamente contrapposto alla figura del superuomo è l’inetto del Novecento, tratteggiato ad esempio nei romanzi di Svevo: incapace di compiere delle scelte e di vivere la propria vita a pieno, portatore di un vero e proprio disagio, alienato dalla società e da sé stesso. È un “antieroe”, in evidente contrasto con i valori caratteristici del suo periodo storico.

In questi anni, la dilagante foschia che circonda la sfera morale dell’uomo inizia ad offuscare anche il confine tra bene e male, cancellando la concezione dell’eroe e del nemico come specchio rispettivamente della giustizia e della disonestà e mettendo in risalto le ombre e i punti di luce interni all’individuo stesso. 

La frattura tra società e inetto è però di carattere decisamente diverso rispetto al doloroso sradicamento del personaggio foscoliano Jacopo Ortis: in quest’ultimo  caso, infatti, l’eroe romantico è mosso dalla forza interiore di colui che crede fermamente nelle proprie scelte e propone dei nuovi valori, seppur questi siano discordanti con la società perbenista ed ipocrita del suo tempo.

Il suicidio di Jacopo Ortis sembra riportarlo ad una visione classicheggiante, ma a differenza dell’eroe omerico egli non combatte per mantenere in vita l’apparato preesistente, ma per abbattere una società altamente autoconservativa.
Anche l’inetto non è integrato all’interno della sua comunità, ma non propone una moralità alternativa: nel primo Novecento i sistemi valoriali infatti sono distrutti senza essere ricostruiti sotto una nuova luce. 

Ancora oggi questi sembrano non essersi ricostituiti, se non tra le pagine dei fumetti Marvel o tra le righe de Il signore degli anelli, che affollano le librerie dei lettori un po’ nerd che cercano di scappare dal Ventunesimo secolo verso dimensioni parallele e mondi lontani, alla ricerca di nuovi – e vecchi – eroi.

Forse personalità di spicco, che hanno apportato grandi cambiamenti in positivo alla società, potrebbero essere considerati dei valorosi e un esempio da seguire e da ammirare. Ma d’altra parte, come afferma Bertolt Brecht, “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”.

Invece di scrutare nella folla sperando che un individuo eccezionale arrivi a salvare i comuni mortali dalle loro peripezie, non sarebbe auspicabile raggiungere uno stato di equilibrio tale da non necessitare di eroi?

In una società utopistica ogni individuo “comune” che svolga il proprio dovere sarebbe un prode e pertanto nessuno risalterebbe per il proprio coraggio in mezzo agli altri.
Forse ogni cittadino dovrebbe cercare di essere un “amichevole Spider-Man di quartiere” invece che aspettare che un figlio di Odino piombi giù dal cielo con il suo martello per fulminare ogni nemico. 

Del resto, come insegna Tolkien, anche la creatura più minuta, come un pacifico Hobbit della Contea, può cambiare il corso della storia, ma non soltanto affrontando Cavalieri Neri e legioni di orchi per combattere l’Oscuro Signore. Bisognerebbe piuttosto comprendere ciò che lo stregone Gandalf il Grigio afferma nella trilogia cinematografica de Lo Hobbit

“Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.”